martedì 19 dicembre 2017

"Vita di un'aspirante narratrice #1: tra sogno e realtà.

È mattino. Oltre i vetri, un tiepido sole dicembrino preannuncia una bella giornata. Ti alzi con il pensiero del tuo manoscritto che ti attende, ti sei data giusto un mese di tempo per la necessaria revisione. Niente di più facile. Accendi il pc e, finché si avvia, ti prepari il tè caldo, così da poter appoggiare la mug fumante alla destra del pc (a sinistra hai il mouse), che fa tanto scrittrice. (Ti hanno insegnato che visualizzare è fondamentale). Apri il file, e le 90 pagine dattiloscritte sono lì, ad attendere solo che tu possa integrare quello che sarà la "rivelazione letteraria del 2018" (se devo visualizzare, lo faccio bene, no?). On Air: Ludovico Einaudi.
Ti siedi, e le dita scorrono leste, a ritmo dei tuoi pensieri e della tua ispirazione, quasi fosse una folgorazione mistica, insegui le immagini e le descrizioni di cui il tuo testo ha bisogno. E li senti, i tuoi personaggi, dietro le tue spalle, un po' tristi perché ad ogni parola si avvicina il momento di lasciarli andare al loro destino, ma felici, per essere parte di un progetto che si è compiuto. Ed è lì, sull'ultimo punto, che la soddisfazione si mescola alla commozione. Poco prima, della parola fine. 

È mattino, sì c è il sole ma fa un freddo bubbo. I gatti hanno forzato la porta chiusa e sono piombati sul letto reclamando cibo come fossero alla fame da almeno quindici giorni. Arranchi fino alla cucina, e ne tempo in cui riesci ad infilarti la ciabatta, il resto del mondo ha già preparato la moka, messo in tavola la colazione e fornito almeno tre proposte valide di risoluzione alla questione palestinese. Vorresti accendere il pc, ma prima devi trovarlo sotto la montagna di roba da stirare, a proposito di stirare, ci sono almeno due lavatrici da mettere su, e le vogliamo cambiare le lenzuola? Finalmente è ora di pranzo, e ti fai una pasta al burro senza burro, dal momento che non ricordi esattamente quando hai fatto la spesa l'ultima volta. Finalmente trovi il pc e puoi procedere alla correzione di quei 268 "che-mi-gli-ti" usati a cazzum. E, RaGattiiii.. scendete dallo stendino! Leooo! non puoi appendere tuo fratello con le mollette alle orecchie! lascia stare Edo! Mia, dai su alzati, che la mamma deve creare, produrre, scrivere la rivelazione letteraria del... sì vabbè ciaone.

martedì 17 ottobre 2017

Ma come ottobre?


Ma...? ma come ottobre? di già? e l'ultimo mese dov'è finito? e poi, già che ci siete, datemi le coordinate dell'ultimo anno.
Non c'è verso di fermarsi, anzi, è tutto un rincorrere un tempo che non basta mai. Tra esami del sangue, una certa tensione di sottofondo, i dolori e il contorno che facile non è ma ci si prova sempre. Insomma, alzo gli occhi sul calendario e taaacccc... siamo lì eh... l'autunno è già iniziato da un pezzo, lo capisco dalla trapuntina sul letto che non sempre basta, e i Kiss che crescono a vista d'occhio. Hanno già compiuto 4 mesi e si vedono tutti, loro che si muovono per casa con le loro panciotte, tipo wustel con le zampe.
Le cose mi cambiano ad una velocità che fatico a gestire, io che da buon toro avrei bisogno del mio tempo per metabolizzare i cambiamenti, e invece niente. Non ho tempo, non metabolizzo, rincorro. Come il fatto di essere di nuovo, a distanza di 6 anni, alle prese con il problema delle scarpe. Eh già, perché le scarpe per noi donne sono uno di quegli snodi fondamentali che la teoria della relatività ci sembra un problema di prima elementare. Mi trovo a dover rinunciare di nuovo ai tacchi, alla mia viscerale e sviscerata passione per le altezze, io che mi sono sempre sentita dire "altezza mezza bellezza, tu sei mezza e basta". E pare che io riesca a sopravvivere solo con le scarpe da ginnastica. "Capirai il dramma" direte e avete ragione, rispondo. Ma come ho sempre detto, il tacco è uno stato mentale. Di conseguenza anche la scarpa da ginnastica lo è. Il punto è solo uno, che dovrei fregarmene bellamente, io sono io indipendentemente dalle altezze, dalla scarpa, dal jeans in cui vivo o dalle gonne che non metto mai. E ci riuscirei. Se solo avessi il tempo di mettermi lì, metabolizzare al cosa, farmi passare i dolori misti che mi stanno addosso da un po' di tempo, e prendere fiato. Che poi, sì, siamo tutti d'accordo che questo tipo di lagnanze sono del tutto ingiustificate, che il senso di colpa cresce in modo direttamente proporzionato al numero di parole usate. Che le persone muoiono di guerra e di fame e io sono qui a rimpinzare l etere di ansia per i dolori alle ossa. Ma questo è il mio piccolo orticello, e in questo periodo ci trovo un sacco di gramigna.
Devo trovare il modo e il tempo di farmi spazio, di cambiare la prospettiva e lo sguardo con cui osservo le cose. Devo cambiare il ritmo, perché mi sembra di essere da mesi su una pista di rock acrobatico, e fatico dannatamente a tenere il tempo.

lunedì 18 settembre 2017

pensieri a vanvera... ma non troppo.

Leggo sempre più spesso di persone che mollano tutto e partono. In un paio di occasioni mi è anche stato detto: "perché non molli tutto anche tu e parti? se non lo fai tu che sei da sola... poi magari ti sposi, fai figli..." e un'altra manciata di luoghi comuni.
Già... se non parto io che sono sola. Ma lo sono davvero?
Ha forza di scontrarmi con queste idee, ho iniziato a pensare che a partire sono capaci tutti, è a restare che ci vuole coraggio. Ma detta così non mi piace. Mi sa tanto di quelle generalizzazioni di cui sopra, e comunque mi sembra comunque di alzare una barricata tra due filosofie di vita diverse. Invece vorrei aggiungerne una terza, quelli che sì, potrebbero volendo partire, ma restano. E non certo perché sia la strada più semplice, o uno sguazzare nella "confort zone".
E' vero che sono single. Non è vero che sono sola. A prescindere dalle recenti news entry pelose, non lo ero nemmeno prima. Perché ho una famiglia d'origine piuttosto presente. E non lo dico nel senso di "invadente" ma nel senso di "presente". Ci siamo, facciamo comunella l'uno con l'altro. Quindi ho una madre e un fratello maggiore. Essere la figlia di una madre vedova, non è semplicissimo. Perché gli anni passano per tutti, e le esigenze e il bisogno di aiuto aumentano proporzionalmente all'età. Essere figlia di una madre con un problema di salute, o una disabilità, crea responsabilità, che si somma alle esigenze di cui sopra. E se il non prendersi queste responsabilità significa scaricarle su qualcun altro che deve fare anche la tua parte. Mia madre per quanto possibile resta molto autonoma. Mio fratello un gran collaboratore, ma si sa che tra donne l empatia e la confidenza restano maggiori. Se io decidessi di partire per sei mesi, un anno, verrei sicuramente capita. Ma creerei non pochi problemi e non solo logistici o organizzativi. Ma anche e soprattutto emotivi. Scaricherei tutte le responsabilità, anche mie, su chi resta. A questo punto mi sento dire "ma loro la loro vita se la sono scelta". Anch'io. Ho scelto di esserci. Ho scelto di essere il Jolly della famiglia, quella che non avendo dei bambini o orari domestici più rigidi da rispettare, posso giocarmela meglio, ed essere di maggiore aiuto per chi ne ha bisogno. E non significa che non vorrei mollare tutto e finire in un mare caldo. O viaggiare in lungo e in largo, lavorare delle ore di meno e facendo un lavoro più mio che mi dia maggiori soddisfazioni, o più creativo. Ma resto. Che non significa nemmeno che chi si accontenta gode, (chi l avrà mai pensata sta minchiata), penso solo che posso provare (e spesso riuscirci) a tirare fuori il meglio che posso dalla situazione in cui sto, che questa capacità di andare oltre al "mollo tutto" può darmi grandi sorprese (e tante me ne ha già date), che non sempre le ciambelle riescono graziose e con il buco. Ma non per questo non possono essere buonissime. Io credo che la differenza non la faccia il dove si è, ma il come si sta nel posto dove si è. Potresti essere in paradiso, ma se qualcosa dentro di te stona, non sarà il coro degli angeli a raddrizzare quella nota.



lunedì 4 settembre 2017

Era ora...


 

Sarà che sto invecchiando. Ma quest'anno ho avuto la conferma che agosto è quel mese in cui fai milleedue progetti, perché è state, perché il sole, la luce, il tempo, la mattina puoi dormire, le vacanze, e ne porti a termine forse meno di un quarto. Perché il sole ustiona, perché il caldo ti rende simile ad un'ameba incrociata con un bradipo, perché le zanze, e ti manca la forza, le ore sono più libere ma decisamente appiccicose, e la voglia di far del bene si piazza davanti al condizionatore e non la smuovi più.
E poi la vacanza vera, quella con valigia e partenza, il biglietto aereo in tasca.  Quest'anno la meta tanto attesa, era Parigi. Finalmente Parigi, a riprendermi la "mia Parigi" quella che mi sono persa, che non ho visto bene, che avrei voluto vedere meglio e non mi ero goduta l'altra volta. Parti da dalla Terra degli Hobbit che ci sono 40 gradi con un tasso di umidità del 208% e arrivi lì tra un temporale e un vento che te lo racconto e ci sono 15 gradi. Forse. Ma te ne freghi, sei a Parigi, apri la finestra della tua stanza e c è Notre Dame a dirti buongiorno. Salvo poi passare sotto secchiate d'acqua e trovarti con il collo bloccato e un dolore lancinante per 4 giorni (sui 6 di vacanza previsti) e anche se poi il vero emblema del linguaggio universale non te lo dà la parola amore ma ibuprufene, non ne esci che solo dopo il rientro a casa, dopo notti bianche tra dolore e pianti.
E poi ci pensi, che se fosse una tua amica a raccontartelo diresti "minchia che sfiga" ma non sei sicura di volerti appiccicare addosso l etichetta di "sfigata". Non ci stai proprio, e allora ti racconti che se proprio devi stare male, meglio a Parigi che nelle favelas brasiliane.
Insomma, alla fine agosto è un mese in cui non combino nulla di che. A parte adottare 3 palline di pelo pestifere e smiagolanti, da un gattile di periferia. E queste sono soddisfazioni.
Ma come sempre mi accade quando le cose vanno cosìcosì, mi interrogo su cosa potrei fare la prossima volta per migliorare la cosa. E nel contempo combatto tra l'idea di un'eccessiva pianificazione (mica potrò già pensare alle prossime vacanze) e la necessità di avere un obiettivo all'orizzonte. Non solo. Partita per la Francia con il mio bagaglio del "io funziono solitamente così" mi sono resa conto che anche le mie abitudini sono cambiate, insieme alle mie necessità. E alle mie voglie. Tutto da rifare.
Per fortuna siamo a settembre, che significa copertina sul letto, aria respirabile, e nella giacca che tiri fuori dall'armadio ritrovi la voglia di fare che davi per dispersa. E qualcosa lo senti nell'aria, che sta per cambiare.
L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere, perché vivere è  cominciare sempre, ad ogni istante. (Cesare Pavese)



mercoledì 26 luglio 2017

conto alla rovescia

La sento... la modalità "vacanza imminente" nell'aria. Me ne sono accorta quando, domenica, mettendo i miei jeans preferiti in lavatrice ho pensato "eccoli, questi me li porto via" il che significa che non li metterò più fino a quel giorno, vertendo su altri ripieghi.
E da lì il "cosa metto nello zaino" perché la vacanza imminente sarà all'insegna della praticità e della leggerezza. Per non parlare del "cosa vado a vedere". A Parigi per me ci sono tappe fondamentali: il Louvre, manco a dirlo. Il Museo d'Orsay, e questa volta voglio riuscire ad andare dietro l'orologio. E poi la mia amata Tour, e nemmeno Zeus potrà impedirmi di vederla di sera, illuminata e festosa. A costo di accamparmi lì dal mattino. Ma poi non ho voglia di passare le giornate in coda, o chiusa in qualche posto. Ho intenzione di godermi la città. Le sue vie, la passeggiata lungo la Senna, e carpire un po' di quella "Vie en Rose" che troppo spesso ultimamente si nasconde. E poi, ho voglia di dare spazio al mio lato burlone, così ecco anche le tappe del film Le fabuleux destin d'Amélie Poulain. Magari andare a tirare sassi nel Canal Saint Martin sarà illuminante.  E al posto del nano da giardino, porto Lella. Chi meglio di una coccinella porta fortuna, può farmi compagnia in quest'avventura?
Parto da sola. E se penso a tutte le ragazze di cui ho letto che intraprendono viaggi da sole, ben più impegnativi, mi viene da sorridere di me stessa. Ma è il mio primo viaggio, lontana e da sola. E un po' sono emozionata, un po' timorosa, ma con il passare dei giorni, l'ultima pensiero che riesco a formulare con coerenza è che sono troppo contenta. Un po' come quando scrivo e riesco a tradurre in parole una scena che nella mia testa pare perfetta. Mi diverte solo il pensiero. Mi immagino di poter fermarmi a studiare un'inquadratura senza il patema di qualcuno che sbuffa alle mie spalle perché impiego troppo tempo, mangiare quando voglio, fermarmi quando voglio. Andare fuori dai percorsi stabiliti, camminare per anche per i cimiteri in cerca delle tombe famose. Ascoltare il silenzio.  Raccogliere le idee. "Ho ritrovato me stessa a Parigi" diceva Sabrina.
L'idea è proprio quella.

giovedì 22 giugno 2017

E' arrivata l'estate. Cercavo un'immagine che me la evocasse e ho preso un'insalata d'orzo con le verdure. L'adoro. Per la freschezza, per il modo di saziarti senza farti sentire un ippopotamo e, non l'avrei mai detto, perché invecchiando mi sono appassionata alle verdure più che a qualsiasi altra cosa.
Arriva l'estate e ho voglia di pensieri leggeri, di togliermi di dosso le paranoie, le incazzature veloci, ma anche quelle latenti che ti porti alla bocca dello stomaco come un'abitudine. Ho voglia di fare cose senza pensarci troppo. Come sabato scorso quando mi sono seduta davanti alla Maga Ginevra e le ho detto di farmi le carte. E lei mi garantisce che c è un Re di Coppe nel mio futuro. A leggerne la descrizione sono scoppiata a ridere. Praticamente un Alberto Angela in versione bionda. Troppo bello per essere vero, ma visto che è estate, voglio concedermi il lusso di crederci, sperarci un po' e usarlo come aneddoto nelle serate tra amiche per riderci su.
Ho voglia di mojito, e di chiacchiere sceme, di guide turistiche da sfogliare e di perdermi per qualche strada che non conosco, e dover chiedere informazioni. Ho voglia di finestrini aperti, di cantare mente sto in coda in tangenziale, perché le canzoni d'estate sono quei tormentoni che ti entrano in testa senza chiederti il permesso. Ho voglia di mettermi in gioco. E di giocare. Con leggerezza che non significa superficialità. Significa che ogni gesto e ogni svolta non deve essere carica di quella pesantezza introspettiva che non riusciamo a non dare ad ogni cosa ci capiti, chiedendoci il perché e il per cosa. Ho voglia di lasciare andare. Un anche solo per un po'...
Ho voglia di cose semplici, fresche, come un'insalata d'orzo.

giovedì 15 giugno 2017

Libri...

I libri sono oggetti. Più o meno preziosi a seconda dell'autore, dell'edizione e del contenuto. Ma nella sostanza sono oggetti. E nemmeno indispensabili, a ben vedere. C'è gente che senza vive benissimo, c'è chi ne ignora bellamente l'esistenza eppure è felice, e chi li vede semplicemente per quello che sono. Libri. L'essenza del libro ce la mettiamo noi, a seconda delle nostre proiezioni emotive. Attenzione, non sto parlando dei manoscritti di Leonardo, o dei manufatti meravigliosi del '300. O, ancora, I Dialoghi con Leucò, con l'ultimo messaggio di Pavese tra le pagine. Sto parlando dei più comuni libri di oggi, quelli stampati copia su copia, di autori più o meno discutibili, anche apprezzabili, per carità. Ma libri "normali". Di quelli che se dimentichi in tram poco male, non è la fine del mondo. Lo ritrovi anche su Amazon.
Libri.
Stamattina mi imbatto in un video dove un artista incidendo libri, crea sculture meravigliose. Indiscutibilmente meravigliose. I commenti (non si dovrebbero mai leggere i commenti sotto gli articoli di giornale, e nemmeno sotto certi video, pena la gastrite) facevano rabbrividire, il livello di aggressività scatenata dall'incisore nei "lettori" era pari a quella di un video terroristico. Oh ma andiamo. Torniamo ragionevoli. (Ragionevole è una parola che si trova ancora sul dizionario, sì). Esistono libri e libri. Il libro non è un oggetto sacro in sé. Ci sono libri che ti fanno solo pensare "spero che l'albero fosse già morto da un pezzo". A questi libri, se me ne ritrovo tra le mani, io regalo una seconda possibilità: li butto, nel bidone della carta riciclabile. Così che magari muoiono libro della Barbara D'Urso e la carta poi rinasce come bigliettino di invito ad un matrimonio. Le si dona, alla carta dico, la possibilità di riacquistare dignità. Il libro lo puoi sottolineare, gli puoi fare l'orecchio sull'angolo della carta, schiaffarci dentro una cartolina del mare degli anni '80 come segnalibro, di quelle che le ritrovi dopo anni e dici "oh ma tu guarda! me la ricordo quella vacanza...".
Il libro lo si può e lo si deve vivere, senza che qualcuno abbia la pretesa di insegnarti a leggerlo al solo fine di lasciarlo intonso, studiando posizioni kamasutrali per non piegare eccessivamente la costa.
E lo si può anche accantonare. Così come accantoniamo le persone per le più svariate ragioni. Se abbiamo il coraggio di sbattere porte, o lasciare una persona che non ci completa più, possiamo anche separarci da un testo che non si fa leggere. Regalandolo alla biblioteca del paese, ad un conoscente dai gusti diversi dai nostri, ad un mercatino delle pulci o al bidone del riciclo se opportuno, dagli la possibilità di diventare altro. Qualcosa di migliore, forse, che per certi autori ci vuole poco. Anche diventare uno scatolone da imballo, che viene usato in un trasloco verso una nuova vita, è meglio di un centinaio di pagine sfumate di grigio nero o che.
Insomma. Ci sono cose che si possono lasciare andare.
Un po' come le persone. E non è mica detto che sia sempre doloroso. Spesso, quando ci si libera dell'idea del possesso, si vive meglio. Decisamente, meglio.  


lunedì 12 giugno 2017

tempo...

Il tempo cura tutte le ferite, dice un vecchio adagio. Peccato che ormai si viva in perenne lotta contro il tempo. Specie quello delle sensazioni negative, del dolore, del vuoto. Facciamo di tutto per riempire il silenzio o il vuoto con il rumore, l impegno. Anche l impegno del niente è meglio del fermarsi e permettersi di soffrire. Accettare una sconfitta, una battuta d'arresto. Un dolore, appunto.
Ci insegnano che chi si ferma è perduto, e quindi è tutto un correre e un rincorrere. Qualsiasi cosa pur di concentrarsi subito su un altro desiderio.
In realtà, il dolore come la gioia, va assaporato. Non dico sguazzarci dentro o intingersi nell'autocommiserazione. Parlo del metabolizzare. Come la gioia o il momento di felicità che lo vivi e vorresti trattenerlo per sempre. Ma non puoi e allora vivi la sensazione perché sai che sarà quella a cui potrai aggrapparti nei momenti bui.
Ma, anche il dolore è così. Anche il dolore per quanto sgradevole è lì per lasciarci qualcosa a cui aggrapparci.
La prima cosa che mi hanno detto, quando Melli se n era andata solo da poche ore è stata "prendine subito un'altra". Passiamo oltre alla mentalità del "era solo un gatto". Facciamo questo sforzo. Nel dolore della perdita l idea del rimpiazzo era quanto più lontana dalla mia testa, ma ancora da più dal mio cuore. E' passato meno di un mese da quel giovedì sera, ho dato il tempo al mio cuore di tramutare il dolore in malinconia. Quella che mi prende la sera quando rientro in casa e non la vedo alla porta ad aspettarmi, non sento le proteste, e non ho nessuno a cui fare domande sceme con una voce altrettanto scema.
Ieri mattina sono stata in un gattile. C erano una ventina di gatti, uno più bello dell'altro, ognuno con una storia ed un passato. Alcuni diffidenti, altri socievoli e coccoloni, nonostante tutto.
Ho provato a visualizzarmi accanto a qualcuno di loro. E anche se l'idea di aiutarli mi entusiasmava, non sono riuscita a vedere nessuno di loro sul mio letto, a dormire accanto a me. M. del resto mi ha detto "dopo vent'anni di letto condiviso, come fai in effetti a farci rientrare chicchessia".
Il letto simbolo di intimità. Anche quando, ma forse soprattutto, quando lo condividi con un amore incondizionato. Non voglio paragonare la perdita del micio con una vedovanza, per carità. Ma tra "umani" siamo in grado di tradirci, cambiare letto e lenzuola con maggiore facilità. Quando l'amore è spezzato dalla perdita, quel vuoto in qualche modo ci fa compagnia. E' dura pensare ad un "rimpiazzo". Ma per focalizzare una nuova storia, un nuovo amore che ti faccia battere il cuore senza sovrapporsi al primo, torniamo sempre lì: c è bisogno di tempo. Che la ferita faccia la crosticina, che inizi a prudere, che la pelle nascosta lì sotto diventi più forte e capace di resistere agli agenti esterni. E quando è pronta la crosticina cade da sola. Resta il segno, che rappresenta un ricordo. Ma che non fa più male. Questo è.
Dovremmo ricordarci la lezione di tutte le volte che siamo caduti dalla bici, dai pattini o dallo scooter. Ci vuole tempo. Per riassorbire il trauma, farsene una ragione. E riprendere coraggio.
Non importa che forma abbia l'amore. Dovremmo imparare nuovamente a concederci il tempo di soffrire, curarci e innamorarci di nuovo.
Che non tutto, si cura con il tempo di un clic.

lunedì 5 giugno 2017




Nei primi dieci giorni senza te, ho scoperto che:
- la porta dello stanzino e quella del bagno possono chiudersi. Incredibile!
- esistono rumori in casa che non sono dipendenti dai tuoi spostamenti. Ma che, davvero?
- che cammino ancora guardinga con l idea di poter pestare uno dei tuoi pupattoli, o te che mi ti infili tra le gambe.
- che la cucina senza le tue ciotole sembra più grande...
- lasciare il tuo piattino rosso da prosciutto, sopra il tavolo ieri, non è stata una buona idea.
- non mi riesce di tagliare una fetta di prosciutto senza pensare "questo è per la mia rompipalle".
- che sei sempre stata una gatta silenziosa, ma il silenzio d'assenza è ben diverso dal silenzio di presenza.
- che posso lasciare le finestre aperte, senza pensare "troppa aria le fa male alle orecchie" oppure quella dello studio: "potrebbe saltare sulla scrivania, andare in finestra, precipitare, finire nella casa diroccata di fronte, rompersi entrambi i femori, perdersi nella nebbia padana e finire mangiata dai cani alsaziani" e altri cataclismi di varia forma o natura.
- che sono molto più libera di andare e venire senza orario, ma al momento non ho ancora capito che farmene di tutta questa libertà.
- che posso lasciare la roba stirata sul letto senza ritrovarla 5 minuti dopo con una riconoscibile sagoma di culone peloso pressata sopra, con relativa dispersione di pelo.
- possono esistere vestiti senza peli. mah!
- il letto è diventato improvvisamente immenso, benché tu non fossi certo delle dimensioni di un alano
- passare 10 giorni senza dire cose sceme parlando con la vocetta scema non è sano. potrei iniziare a fare la vocina scema quando parlo da sola. non escludo che finirò per farlo.
- scrivere senza una gatta distesa sulla tastiera del pc, è quanto più difficile una scribacchina possa fare.

martedì 23 maggio 2017

Inversione di rotta


E' quella cosa che fai, che dovresti fare quando qualcosa comincia a starti troppo stretto, o ti stona addosso. I campanelli d'allarme suonano all'unisono, i segnali li hai già decodificati tutti e in fondo, inutile raccontarsela. Sai benissimo cosa non va e di cosa avresti bisogno, ma come al solito, prendere coraggio e dirlo a voce alta è ben altra cosa. Decidersi a metterla quella mano sulla maniglia poi, non ne parliamo. Più comodo, e meno faticoso sarebbe rimanere fermi tranquilli, narcotizzati al proprio posto e mettere a tacere il tutto impegnandosi in altro. E' così che si fanno passare i giorni di cui ci si dimentica in fretta.
Per fortuna ci sono anche le molle che scattano. Potremmo vederle come trappole per certi versi. Ma se non scattassero con il rischio di lasciarci dentro le dita, non verremmo mai smossi dal torpore. Ho passato dei bei giorni a Torino. Il tempo passato con mia nipote è stato un bellissimo regalo di compleanno, l'accoglienza forte e calorosa degli amici, gli abbracci forti i sorrisi, sentirsi attesa e accolta e coccolata come non capita di frequente. Non puoi non uscirne rigenerata. Momenti che ti tolgono dalle spalle i giorni di polvere e fastidi, che ti fanno ristabilire un contatto diretto con quella parte di te, che le cose le sa ed è stanca di rimanere in stallo. Serviva un'inversione di rotta. Cambiare qualcosa, anche di piccolo, ogni giorno. Stravolgere un'abitudine, anche una di quelle che sembrano innocue ma se osservate da fuori qualcosa da dire ce l'hanno. Ieri sera ho lasciato la tv spenta, ho disinstallato facebook da cellulare, ho preso uno dei libri che mi sono stati regalati e sono rimasta a leggere in terrazzo fino a quando non ha fatto buio. Sembra una sciocchezza quasi una banalità. Ma cambiano le percezioni di quello che ti gira intorno. Passava per strada un ragazzo con un pallone. Lo faceva rimbalzare come se fosse da pallacanestro, ma si sentiva dal rumore sull'asfalto che era uno di quelli vecchi di cuoio. Uno di quelli con cui giocavano mio fratello e i suoi amici, prima che nel campetto facessero un orto per tenerli alla larga. Vecchio cuoio durissimo che faceva un tonfo sordo. Se azzardavi a provare un paio di palleggi a pallavolo ti rovinavi le dita, per non parlare della ricezione che rompeva i capillari dei polsi. Niente da fare, nasceva da calcio e da calcio moriva quando finiva contro i vetri delle palazzine accanto al campetto. Nel silenzio della sera, ho ascoltato il rimbalzo scorrere da sinistra a destra, dietro la casa, fino a scomparire in lontananza. Ho rivisto i capelli appiccicati alle fronti sudate, i giacconi buttati a terra a fare da pali delle porte. Le zanzare che ci rincorrevano ma correvamo troppo anche per loro. Le lucciole al calar del buio e ai falli di mano che non fischiava nessuno. Mio padre che cammina piano lungo la strada chiusa, dopo l'operazione e si ferma a guardare le sue rose contando i boccioli uno ad uno. Quel roseto regalerà rose fino a gennaio, anche sotto la neve, quel dannato anno.
Invertire la rotta significa ritornare in possesso di pezzi di sé stessi, che si perdono nel "non ho tempo, non ho modo, mi piacerebbe ma non posso". Dare modo al proprio io di tornare a parlare, e di ascoltarsi, estraniandosi da tutte quelle informazioni volatili e spesso inutili, che sembrano così importanti sul momento ma poi, a distanza di poche minuti nemmeno le ricordi più. Gesti quasi inconsapevoli che poi sanno quasi di dipendenza. E intanto il tempo che ti lamenti di non avere scappa. Ma non è vero. Non scappa. Lo sprechi.
Ieri è stato il primo giorno in cui non ho ceduto all'abitudine serale del divanocopertinatv. Ma credo proprio che stasera si replichi.

mercoledì 17 maggio 2017

"Cosa mi manca per essere felice?"

Ieri sera, mentre arrancavo per la camera cercando fantozzianamente di infilarmi la ciabatta e decidendomi, una volta per tutte di camminare scalza fino alla cucina, in quella fase di rincoglionimento che precede la perdita di coscienza che mi assale ultimamente quando appoggio la testa sul cuscino (e qui dovrei metterci un punto altrimenti a leggere uno mi va in apnea, ma non ce lo posso mettere perché mi spiace ma manca la chiusura della frase) mi sono fatta proprio questa domanda. (Punto).
Subito dopo mi sono chiesta anche perché fossi così imbecille da pormi domande filosofiche a quell'ora e in quello stato. Credo che parte del mio subconscio si fosse soffermato sul fatto che, il lato sinistro del mio letto attualmente è occupato dalla Melli, dalla mia felpa che è diventata il suo cuscino preferito e dai suoi pupazzetti. La sua scarsa mobilità non le permette molto e io la lascio vivere nel modo più comodo possibile. Ma di fatto, nel mio letto non c è nessun'altro a parte lei. Ed è da un po' di tempo che è così. Fortunatamente la parte di me che ancora litigava con la ciabatta, ed ha un senso pratico maggiore della parte di me piagnucolosa, ha risposto un sonoro "sticazzi! fammi andare a letto che ho sonno" e l'argomentare sui massimi sistemi si è chiuso lì.
Credo di essere arrivata al punto in cui sì, se trovassi uno sguardo in cui specchiarmi, e condividere i miei giorni ne sarei felice. Ma dato che si parla evidentemente di un latitante, non ho nemmeno voglia di preoccuparmi più del dovuto di qualcuno che sì, potrei incontrare ma non è detto. E quindi, no, dovessimo andare per esclusione, non mi manca un uomo per essere felice. E allora?
E allora credo che la domanda sia proprio sbagliata, quel "che ti manca" implica una negazione, un'assenza. Stamattina, mentre guidavo in tangenziale con uno sorriso così grande da farmi male alla faccia, il mio lato sciabattoso mi ha guardata di sottecchi e mi ha detto "lo vedi che ci sei arrivata pure tu? la vera domanda è "Cosa c è nella tua vita che ti rende felice?"
Un sacco di cose. Oh sì davvero. Tipo le poche parole che mi ha rivolto il "Maestro" al telefono. L'idea che finalmente è venuta a sciogliere un passaggio ostico del mio "romanzo". Le chiacchierate con l'onnipresente Ing. che se non ci fosse nemmeno ad inventarlo verrebbe così. La risata della nuova Amica che, in un messaggio di w.app mi racconta di tre giorni tosti, ma sorridendo. Che i sorrisi, se sono veri, li vedi anche con le orecchie. La Melli che contro ogni aspettativa decide di svegliarsi ogni giorno, mia Madre che reagisce davanti a quest'avventura tutt'altro che facile, cucinando ogni giorno qualcosa di diverso. Mio fratello che mi chiama e poi il "grazie" me lo scrive a parte... I biglietti per il salone del libro, che significa il mio primo viaggio con la mia figlioccia. E non vedo l'ora.
Ce ne sono di motivi per essere felici. E non è nemmeno vero che la felicità sta nelle piccole cose, perché, a pensarci bene, i questo elenco, non ci vedo proprio niente di piccolo...

giovedì 4 maggio 2017

pensieri sparsi #hopersoilconto

Partire è uno stato mentale. Un po' come dire sono via di testa, sì ecco è un immagine che rende. Però, almeno in questo caso, sto valutando il concetto di partire come un andarsene mentale.
Si parte per staccare la spina, per cercare un orizzonte diverso, per prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno. Per rendersi in qualche modo irraggiungibili o vedere se ci sia qualcuno disposto a rincorrerci. A partire con noi. Quando il viaggio è mentale (e non causato da sostanze stupefacenti) il concetto di fondo non cambia. Spesso, spessissimo prendiamo le distanze da qualcosa o qualcuno, e specie se si tratta di un qualcuno di particolare, si spera in fondo che questo faccia qualcosa per fermarci. O rincorrerci.
Che sia un partire fisico o mentale, prendere le distanze e cambiare direzione è sempre meglio che restare lì infognati, pardon, ad aspettare un qualcosa (o il solito qualcuno) che non arriva. E perché non arriva? Perché non è, o non siamo la persona giusta? Perché non è il momento giusto ma potrebbe esserlo più in là? Perché ci sono mille e un freni inibitori, o scuse, o supposizioni. Insomma quello che si vuole ma chiaramente nessuna idea chiara. E' come arrivare trafelati alla fermata del bus, e trovare il solito vecchietto che dice "eh, c è sciopero" e tira dritto. Ma come? E per quanto? Ma siamo sicuri che non passa?
Ha senso restare fermi? Ci si guarda intorno, si scruta l'orizzonte e poi? Quando mi capita preferisco incamminarmi, arrivo alla fermata successiva, mi riguardo intorno e poi decido il da farsi. Nel maggior numero dei casi, sono giunta a destinazione a piedi. E tutto sommato spesso è pure meglio. Si cammina, si riflette, ci si guarda un po' intorno... Una canzone di Ruggeri che adoro dice "la stasi debilita, l'azione rinfranca". Aspettare è una cosa che mi manda in corto circuito perché significa far dipendere la mia vita e le mie scelte da un'attesa. Preferisco essere io a decidere per me, decidere se restare qualche minuto alla fermata o decidermi a proseguire dritto per la mia strada. Si perde troppo tempo dietro ad un'illusione o ad una aspettativa. Come se alla fine avessimo tutto il tempo del mondo, e invece no. Ed è chiaro non si possa vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Ma non si possono lasciar correre i giorni ipotecandone altri in virtù di un potrebbe essere che, già solo per il potrebbe, non è.
Partire dentro di sé potrebbe rivelarsi il viaggio più faticoso in assoluto. Anche se non ci sono prenotazioni obbligatorie da fare. Le strade della nostra mente sono così strutturate e tortuose da rivelarsi spesso labirinti mal costruiti, e senza via d'uscita. Il percorso è costellato da poltrone comodissime e seducenti, che sono parte della nostra confort zone. Un volta che ti ci siedi di nuovo e inizi a massaggiarti i piedi, finisce che non ti alzeresti più, e ritorni a procrastinare, a vivere nella comodosa idea che il compromesso ci sta, sia parte della vita e vada bene così. Poi se sei fortunata ti passa davanti qualcuno correndo, con una bella falcata e lo sguardo deciso. E nonostante sia sudato marcio ti pare felice, e allora ti rialzi e torni a camminare, perché la voglia di essere felice non ha bisogno di un massaggio ai piedi. Corre anche scalza verso la meta se serve. Siamo solo noi a farle lo sgambetto. E poi è facile, e spesso accade, che si perda il bagaglio. Ma inizio a pensare che il più delle volte sia solo un bene.

venerdì 21 aprile 2017

Lady Mellens...


Ieri Lady Mellens stava volando sul ponte. Da Pasquetta, dopo un attacco epilettico, le sue condizioni sono gravi. Ieri sera, è collassata. Provava a camminare, ma ha perso conoscenza. Ha zompettato verso il ponte arcobaleno, ma, trovatasi al cospetto di San Francesco, l ha trovato stupito del suo arrivo:
"Ma come Milady, già qui? ma la suite imperiale non è ancora pronta... sa... Amazon è in ritardo con la consegna della Jacuzzi... l'aperitivo nel patio dice? mi spiace ma non l'aspettavamo così presto e... anche le olive per il Martini sono finite".
Lady Mellens che non è certo farina da fare ostie, stizzita e scocciata, ha deciso di fare retro front. E indossata la sua 18ma vita, quella in chiffon e ribbons è tornata indietro.
Stamattina era accanto a me, coccolosa e fusante.

giovedì 20 aprile 2017

schegge di tempo...

Una volta, in un telefilm, ho sentito uno psicologo dire che il dolore arriva a ondate. Alterna momenti in cui ti sommerge, ad altre in cui riesci a razionalizzare e anche a formulare un pensiero che abbia un senso.
Sto ascoltando un cd del Coldplay in loop, è uno dei primi, quelli dove le sfumature della musica sono ambrate e un po' cupe. Ed è vero. Il dolore va a ondate. E il "bello" è che si tratta di una sorta di acconto. Non è nemmeno quello "vero", perché ancora nulla è deciso, tutto è sospeso in un futuro ipotetico che non lascia grandi speranze, tantomeno aspettative di sorta. E' un inevitabile di cui si sente l'odore, ma non se ne avverte ancora la presenza.
Mi ritrovo alle prese con una decisione difficile, niente a che vedere con quella che hai preso tu, meno di un mese fa. Per l'amor di Dio non ci voglio nemmeno pensare.
Forse una delle cose più giuste che mi siano state dette (sono poco le cose sceme, a dire il vero, ma come diceva un amico poco fa, del parere degli idioti non ci si deve curare) me l ha detta il Fratellone: "non ti invidio per nulla, pensa a quello che vorresti per te, se fossi al suo posto...". E alla fine la palla ritorna a me. Che dopo 18 anni e mezzo insieme, credo di essere l'unica a conoscerla davvero, come forse lei custodisce dentro di sé la parte più vera di me.
Che poi a pensarci bene lei di dubbi ne ha sempre avuti pochi. Ha sempre riconosciuto un uomo per cui valeva la pena, da un emerito pirla prima di me. E infatti quelli che non ha schifato o snobbato allegramente si contano sulle dita di una mano. Ha sempre saputo cosa voleva e come andarselo a prendere. Anche quando si trattava di un ragno o una cimice puzzosa. Però è stata capace di insegnarmi cosa significa amare senza nessun tipo di condizione o di vincolo, fin dal primo momento in cui ha grattato il suo naso contro le mie dita, ed aveva poco più di un mese di vita. E da quando è entrata a far parte della mia,  ho imparato a non mettere più prima me, davanti a tutto il resto. Ho sempre messo lei. E tu, Ing. mi hai sempre fatto ridere dicendomi che ero la schiava in suo potere. Ma alla fine, a ben pensarci. Forse la risposta è ancora e di nuovo quella. Mettere lei, e il suo bene, davanti a tutto il resto. Anche se solo il pensiero mi spezza.

martedì 18 aprile 2017

Anche le Coccinelle, nel loro piccolo, viaggiano...

Arrivato, vissuto e andato. Una non fa nemmeno in tempo a preparare la borsa che già si ritrova davanti alla lavatrice.
Del resto erano solo due giorni, effettivi. Ma meglio di niente. Partire è stato meno immediato del previsto, ma già in autostrada ho respirato aria di vacanza. Non era un vero e proprio viaggio, piuttosto una gita fuori porta. Ma fatta in solitudine, in un posto dove non c'era la tv, non c'erano negozi, dove non c'era un'anima viva, a parte la proprietaria del b&b e i suoi dolcissimi animali. Ma c'era bisogno di questo stacco per una serie di motivi irrisolti, evidentemente, dato che al ritorno lo stato d'ansia è stato richiamato subito a rapporto, con le condizioni di salute di Melli improvvisamente aggravate. Ma anche per semplici questioni logistiche in vista del viaggio vero, quello di agosto. Ad esempio ho imparato che portarsi via la Canon senza la memory card non è una mossa particolarmente intelligente. Che la borsa in canvas verde militare capiente e perfetta per i viaggi, non è così perfetta perché basta metterci la suddetta macchina fotografica, e il portafogli e già pesa l ira di Zeus. E non va bene.
Mi sono fatta il promemoria mentale di togliere il flag da "mulattiere" sulle strade opzionabili del navigatore. E che contro un campanile che suona ogni mezz'ora pure la sparachiodi fa poco. Quella vale solo per il cucu. Viaggiare con la Lella mi ha divertita. Tirare fuori dalla borsa e cercare un'inquadratura che comprendesse il suo facciotto sempre allegro, mi faceva sorridere anche quando i pensieri non erano dei più semplici. E credo abbiano reso le foto meno banali del classico paesaggio con selfie, che personalmente mi fa tristezza. Ho scoperto che i fiori di aglio sono una meraviglia. E credo che alla prima occasione ne pianterò un paio di spicchi, hai visto mai. Alla peggio mi resteranno distanti i vampiri. Magari.
Ho scoperto la bellezza di improvvisare una tappa intermedia, di camminare da sola in mezzo alla gente senza sentirmi mai fuori posto. A gustarmi il silenzio della campagna e le foglie di un pioppo bianco che suonavano a sembrare pioggia.
Mi sono divertita a parlare con chi mi vedeva per la prima volta, ma bastava salutare con un sorriso e ti snocciolava la storia della sua vita nei primi 42 secondi di conversazione. Mi è piaciuto improvvisarmi autrice e tirare fuori le prima 30 pagine del mio scritto e cercare di far quadrare i cerchi che, ad oggi restano aperti. Ma il silenzio e l assenza di distrazioni di un terrazzo, alle volte, aiutano a pensare meglio.
Ho imparato che per un paio di ore si può anche fare nulla. Che non succede nulla, non c è da sentirsi in colpa. Semplicemente stando lì, a godersi il paesaggio, il sole che cala e il vento che attraversa la valle spettinando le vigne. Che non c è bisogno di essere sempre delle formiche all'opera. Ogni tanto si deve lasciare che sia. Indipendentemente da noi.


martedì 11 aprile 2017


Ansa - Ultima ora: Venerdì l'ufficio resterà chiuso tutto il giorno.
E subito anche il giorno 14.04 è stato colorato di giallo fosforescente, tipico colore con cui spennello le giornate in cui posso riprendere fiato.
Il b&b è già prenotato da mesi, ma il rischio di perdere la giornata è stato alto, almeno fino a stamattina. Ma, eliminato anche l ultimo tassello che profumava di problema, direi che sia tempo di mettere in carica la batteria della Berta, scaricare la memory card e preparare uno zaino. Lo so. Non si può nemmeno definire viaggio, è una gitarella. Diciamocelo. Sono abituata a partire da sola e guidare per ore, e tra l altro è una cosa che mi piace molto. Ma è la prima volta che a destinazione non c è nessuno che mi aspetti, e tra l altro in giorni di festa, il che significa che quelli che sono i miei "soliti contatti" quelli che possono sostenere il mio desiderio di comunicazione, saranno ovviamente impegnati con la loro vita.
Ergo, sola.
O meglio in compagnia di me stessa, la macchina fotografica e, per un attimo avevo pensato al pc. Poi ho dirottato sul mio quaderno di viaggio e quello degli appunti. Metti mi venga qualche idea per quel progetto che...
Ne ho bisogno. Voglio staccare la testa dalla solita routine, da quel meccanismo in cui si attende il venerdì con ansia, e poi non fai in tempo a capire che è arrivato ed è già lunedì mattina. Non si può vivere in funzione di un fine settimana, il più delle volte è così carico di aspettative che suo malgrado finisce per non essere all'altezza delle speranze. Aspettare il venerdì sera, aspettare l'occasione, aspettare che il telefono squilli, aspettare... sono stanca di aspettare sempre comunque qualcosa o qualcuno. Sono contenta di partire, di avere tempo per guidare ascoltando la mia musica, di prendere le distanze e mettere ordine anche tra i pensieri e respirare un'aria completamente diversa. Non ho nemmeno fatto grandi progetti di vedere questo o quello. Perché voglio vivermi la giornata senza una sorta di tabella di marcia. E vedremo come va...


giovedì 6 aprile 2017

I buoni propositi...


Facciamo che il mio 2017 sia iniziato con quattro mesi di ritardo? Sì dai facciamo.
Che stamattina ho focalizzato siamo già ad aprile, e sono riuscita a dimenticarlo nonostante l'invio puntuale a messer commercialista del foglio presenze di marzo.
A farmi porre l'attenzione sulla primavera è stato l'arrivo puntale e sistematico della prima bolletta del gas. Quella più leggera, quella che ti dà solo il colpo dietro le ginocchia per farti andare giù. La mazzata, quella vera che ti stenderà togliendoti il fiato e mandandoti in apnea per un tempo che Pelizzari me spiccia casa, sarà giusto verso la fine di maggio.
Diciamo che l'inverno visto trotterellando tra pronto soccorso, farmacie, parafarmacie, ambulatori medici e sale d'attesa di specialisti, non è così freddo ma soprattutto il tempo è volato. Dovessi riassumere questi mesi, in una sensazione: avete presente quando vi scappa da morire la pipì, e bussate alla porta chiusa vi rispondono "un attimo" e quell'attimo è lungo e lento come i rigori ad una finale di coppa del mondo. Ecco, quella roba lì.
Ma il sole finalmente è tornato, le orchidee in cucina sono sbocciate, Brontolo ha voglia di licenziarmi e i passerotti fanno cip ciop. Senza dubbio è primavera. Quindi vorrei far coincidere il mio capodanno personale con il mese della rinascita della natura, il mese dove il tripudio di colori, di pollini svolazzanti, di magliettine leggere e calore sulla pelle, non può non farti fare i conti con:
  • il rotolino di panzetta che prima nascondevi serenamente sotto la yoga felpa di pile, tre taglie più grande della tua.
  • le calze che stringono e strizzano dalla caviglia, sottigliano le cosce, alzano le chiappe e contengono la panza, poco possono in caso di domenica in piscina, perché sotto al costume non ce le puoi mettere
  • per lo stesso motivo di cui sopra, persistere nella depilazione delle gambe è fondamentale e doveroso con maggiore accuratezza e precisione.
Insomma. Sembra che sia imminente il tempo dei "devo". Devo mettermi a dieta, devo riprendere la ginnastica, devo rinunciare ai carboidrati, devo chiudere in un cassetto quei gianduiotti artigianali che mi ha regalato Pat. In realtà in questo novello capodanno, decido di ridurre i buoni propositi in un solo progetto: sostituire il devo al Voglio e sintetizzare il tutto con un "Voglio fare ciò che mi fa sentire bene".
Guardo il calendario e, come chi mi conosce bene sa, significa che c è una partenza imminente. E questa volta niente Piemonte, mi fermo un po' prima. E sarà il primo viaggetto in solitaria, quasi una sorta di prova generale per quel che verrà più avanti. Sono un po' emozionata ma per nulla preoccupata. Alla fine, il bello delle paure, è che puoi superarle.

venerdì 31 marzo 2017

Amazon, croce e delizia

Se penso al mio lavoro, Amazon ha fatto danni. I clienti chiamano qui alle 4 del pomeriggio e pensano di poter richiedere una consegna urgente, per le 8 del mattino dopo. E non stiamo parlando di valvole cardiache. Si è persa la cognizione del tempo e del rispetto del tempo stesso.
Amazon però è di una praticità assurda. L'altro giorno ho visto la pubblicità di un oggetto strano, che potrebbe essere un bel regalo di compleanno per mio fratello e tac! eccolo pure su Amazon. Non devo impazzire ad inventarmi di andare a cercarlo in non so quale negozio, perché è davvero una cosa particolare che non trovi sicuramente con facilità. Specie se lavori 8 ore al giorno e hai di libero solo il fine settimana dove concentri tutti gli arretrati di vita, dei 5 giorni precedenti.
Io, poi, sono un'allodola. Adoro le cose che luccicano. Mi cadono gli occhi su questi bracciali indiani e, tac. Eccolo il pensiero mosso dall'abitudine del tutto subito: l'istinto è quello di vedere se su Amazon c'è. Tempo un paio di giorni e potrei averlo. Comodo e pratico. Se hai la carta di credito carica, deleterio. Perché non devi fare il procedimento di entrare nel sito della banca, caricarla, quindi vedi il tuo conto corrente che scende di pari importo, pagare il "pedaggio" come lo chiamo io (gli oneri di servizio) e poi tornare sul sito ed effettuare l'ordine. Se non è una cosa importante, il tuo cervello ti fa in qualche modo fermare prima. Se la carta di credito ha già un saldo sufficiente in positivo, è talmente immediata la possibilità di effettuare l acquisto che non ti fermi nemmeno a pensare "ma mi serve davvero? mi manca giusto questo per essere felice?". Il  piacere dell'acquisto dura il tempo del click, perché non hai il tempo più di desiderarlo. Piacere effimero. E poi, un'altra cosa. Mi piace degli oggetti la memoria che custodiscono, ecco perché alle volte mi è così difficile separarmi anche delle cosine più sciocche, ma per me hanno un valore importante che è dato dal momento in cui hanno iniziato a far parte della mia vita. Guardando questi braccialetti ho pensato al momento in cui qualcuno avrebbe potuto dirmi "bello questo bracciale... dove l hai preso" e la differenza tra rispondere "su Amazon" anziché un "in una bancherella di bigiotteria usata, poco distante dalla Senna, al quartiere Latino".
Riscoprire il gusto del desiderio. Anche se significa aspettare, cercare. Forse dover pure rinunciare, perché non è quello il momento giusto per trovare.
Ce n'è da rifletterci...


mercoledì 29 marzo 2017

Il tacco è uno stato mentale.


Come ogni primavera mi viene voglia di comprare scarpe nuove.
Come ogni primavera, sono in arrivo le bollette del gas, e mi passa la voglia di comprare scarpe nuove.
Così, dato che lo shopping compulsivo si finisce per farlo alle poste, e, cosa ben più importante, si è entrate nell'ottica di risparmio a favore di biglietti di treno, benzina e viaggi,  si entra nello stanzino e si controlla lo stato degli acquisti dell'anno passato. E non solo per le scarpe, anche per l'armadio e gli abiti. Certo, la temperatura ha ancora escursioni termiche degne del deserto, con i 5 gradi del mattino ai 22 della pausa pranzo. Però il sole, e l'allungarsi delle giornate invogliano al cambiamento.
Mi sono sempre piaciuti i tacchi. Un tempo ci passavo le giornate, quando andavo di fretta ci correvo pure, ma oggi molte cose sono cambiate. Una su tutte la stabilità del mio ginocchio. Dicono che, ammettere un problema sia il primo fondamentale passo per affrontarlo. Ecco, credo sia veramente venuto il momento di prendere atto che l'assenza di legamenti non mi concede una stabilità tale da usare le stesse scarpe e con la stessa frequenza, con cui mi scapicollavo su e giù per la vita, di un tempo. Ma se ne può davvero sentire la mancanza? Sembra uno di quei discorsi un po' frivoli da giornale di moda ma, il fatto è che il tacco è uno stato mentale riconosciuto. Tu indossi i tacchi e, parola di fior di giornaliste del settore, ti senti più sexy, più agguerrita, più padrona di te stessa. Gioco forza la fa la postura: il tacco obbliga la schiena dritta e il passo deciso. Durante la bella stagione, la sera dopo il lavoro esco e cammino a passo veloce almeno un'ora, se riesco lo faccio tutti i giorni. Mi sono accorta che quando cammino velocemente, ascolto la musica e finalmente scarico la tensione della giornata, il passo è deciso e la schiena è dritta. Postura praticamente perfetta, con le scarpe da ginnastica. Quindi, forse far dipendere il mio stato d'animo o lo stato mentale da quei 10 o 12 cm di tacco non è corretto. Sembra uno di quei discorsi da adolescente maschio, sotto la doccia fornito di righello.
Inoltre, se ripenso a quei momenti di cui custodisco il ricordo, in cui sono stata più felice, non ho memoria della calzatura che indossavo. E con ogni probabilità in alcuni di questi sono addirittura scalza. Questo dovrebbe dirmi già qualcosa.
Qualche giorno fa, pensavo all'idea di Semplificare. Con il prossimo cambio dell'armadio, sarebbe interessante provare a disfarsi anche di questi astrusi e arcaici preconcetti. Tornare all'essenza. Il che non significa dare spazio alla sciatteria e alla non curanza, semplicemente contare più su sé stessi e su quanto possiamo dare delle nostre idee e della nostra energia. Imparare a sentirci più noi dentro la  nostra pelle, che dentro un paio di scarpe o una maglia nuova.
Ad ogni modo, questo excursus non solo mi ha fatta ragionare sui massimi sistemi dello sculettamento sui tacchi, ma ravanando nelle scatole delle scarpe ho visto che ho già tutto quello di cui ho bisogno per la prossima stagione, dalle scarpe da ginnastica, alle infradito, ad un paio di sandali per le occasioni speciali.
Considerata la mia spesa media stagionale per le calzature, direi che ho risparmiato all'incirca un centinaio di euro: due biglietti (andata e ritorno) per Trieste con frecciarossa, il pranzo e l'ingresso al Castello di Miramare. Per fare un esempio.


martedì 28 marzo 2017

Lo zen e l'arte dello spignattare...


Fin da piccola le mie forme sono state sempre piuttosto "generose". C è da dire che se fossi nata al tempo del Botticelli, avrei avuto un gran successo. Eppure, tutto sommato, a parte la mia continua lotta (perennemente persa) contro la cellulite saldamente radicata intorno ai miei cosciotti, non ricordo di aver passato un'adolescenza di grandi conflitti. Le così dette paturnie sul peso e sulle forme decisamente mediterranee hanno avuto più peso dopo la separazione. Il che mi fa pensare che il problema non siano tanto i chili di troppo, quanto il peso che si dà alle stronzate che dicono taluni omuncoli e noi fesse pure a dar loro retta. Ma tant'è.
In uno strano processo evolutivo iniziato circa due anni or sono, ho iniziato a fregarmene bellamente. Con una certa moderazione, specie quando la bilancia un po' ci mette del suo. Come tutte le fanciulle, penso al costume, agli abiti più leggeri della primavera e appendo la dieta al frigo pensando di trovare così fonti di ispirazione. Poi ci sono momenti in cui ti scontri con una vita già di per sé amara, e allora cedo al dolcetto. E alla pizza... ma senza troppi sensi di colpa. Suvvia. Alla fine credo siano ben altre le colpe di cui ci si dovrebbe dar pena.
Qualche giorno fa ho visto uno di quei programmi dedicati all'arte culinaria tutto incentrato nella cucina vegetariana. E mi ha incuriosita. Non ho mai avuto una grande passione per gli ortaggi, ma devo dire che negli ultimi anni ho imparato ad apprezzarli, anche al di fuori delle "patatine fritte". La carne, per controparte, non mi fa impazzire. Salvo certe cose particolari, come il ragù di mamma, il branzino al sale, le seppie e il tonno. Uhm. Temo che la filosofia vegetariana non mi appartenga del tutto, ma mi è tornata la voglia di mettermi ai fornelli e prendermi di più cura della mia alimentazione, che negli ultimi mesi "cena" significava aprire il frigo e raccattare a caso ciò che c'era. Sperando non fosse scaduto. (Tipo gli yogurt di ieri, che poi alla fine sono ancora buoni, diciamocelo).  
Esistono quindi gli interruttori mentali? Quelli che ti fanno scattare dentro una sorta di scintilla e pensare che da oggi le cose funzioneranno diversamente? Evidentemente sì. Fondamentale però non cedere di nuovo al circolo vizioso della pigrizia, e del massìdomanicheogginonchovoglia. Cosa di cui, se vogliamo, potrei essere maestra. Se l'idea è quella di ricominciare, e farlo al meglio, allora la perseveranza deve essere uno degli ingredienti principali. Il sole e le giornate più lunghe non possono che essere d'aiuto.
Obiettivo: 1 ricetta semplice al giorno. Niente di troppo elaborato, ma che sia più sfizioso delle zucchine bollite, "da ospedale" come direbbe l'Ing. E vediamo come va.

venerdì 24 marzo 2017

Fragilità


Sono due giorni, che tutto ci ricorda quanto siamo fragili. Quanto siamo precari. Quanto tempo sprechiamo in pensieri e, spesso, ansie del tutto inutili.
Quando sono uscita dal tunnel "incidente" avevo ben coscienza di quanto tutto fosse così... dannatamente sfuggente. E forse, riuscivo a cogliere l'attimo prima e meglio. Perché la botta (non solo figurativa) era recente, e cocente. Perché quando riapri gli occhi e focalizzi di essere ancora viva, ti imponi di darti una seconda possibilità. Poi, man mano che i giorni passano, ci si abitua. Anche alla fragilità, alla precarietà. Rientri naturalmente nel circolo vizioso delle cose da fare, alle scadenze, ai problemi del quotidiano, a come far quadrare i conti tra bollette e imprevisti.
E poi ci sono le notizie che, improvvise, ti riportano in una realtà in cui un folle fanatico può decidere di alzarsi la mattina, e di falciare la tua vita in nome di un dio (e lo scrivo volutamente minuscolo) che non è di nessuno, se non dei folli fanatici. Oppure, un po' più in piccolo, ma certo non meno doloroso, uno dei meravigliosi ingranaggi del tuo corpo decide che è tempo di fermarsi. E con lui il tuo respiro.
E' un paradosso, da un lato, una cosa totalmente scontata al punto di sembrare quasi banale, dall'altro. Ma alla fine, in quei momenti, tutto ciò che ti resta tra le mani sono i sentimenti. Non c è più nulla che ti tocchi, nulla che ti importi davvero. Non lo screzio, non l'incomprensione. Resta solo l'amore, le parole non dette. Quelle che spesso custodiamo, le pensiamo, ma soprattutto le sentiamo ma che non diciamo. Perché il pudore, perché crediamo ci sia sempre tempo, perché... mille e un motivi (fasulli) per tacere.
Qualche giorno fa attendevo un'amica per una cena, e poi si sarebbe fermata a dormire da me. Subito mi è partito il trip delle pulizie, del mettere in ordine, perché tutto doveva essere al meglio. Poi, complice un raffreddore più forte del solito ho dovuto desistere, ma questo rallentare forzato mi ha fatto capire, che a quell'amica sarebbe rimasta impressa la serata condivisa, il potersi riabbracciare finalmente, e sì, forse anche la casa, ma non come specchio esemplare di pulizia, piuttosto come riflesso del mio essere. Non per i pavimenti lucidi, ma per le foto che ritraggono momenti speciali alle pareti.
Mi capita sovente, guardandomi intorno e dentro me stessa, di pensare che alla fine ciò che ci fa più paura è proprio vivere appieno. Attraversiamo i giorni con il freno a mano tirato. Siamo prigionieri di una gabbia di cui noi stessi abbiamo forgiato le sbarre.
Ed è strano che sia proprio la morte, a doverci ancora una volta insegnarci a vivere. Siamo fatti davvero strani...

mercoledì 22 marzo 2017

Lavori in corso


Mi pare fin troppo chiaro, che il 2017 è nato con l'intento di farmi imparare a vivere sull'improvvisazione. Io che amo programmare, non dico al minuto ma almeno al giorno, le cose che vorrei fare e quelle che "me tocca", niente. Quest'anno è tutto un fare e disfare che nemmeno la tela di Penelope.
Non fai in tempo a mettere giù due punti chiave, per il fine settimana, che ti prendi mezza bronchite e viaggi sui 10 giorni di antibiotico. Così, giusto per non farsi mancare niente. E quindi anche in pensieri si piegano su loro stessi, agitati e scrollati tra uno sternuto e un migliaio di colpi di tosse senza fine. Ma se le idee e le energie latitano, la buona speranza c è sempre. Intanto ho dato un cambio di aria a queste stanze, ne ho modificato i colori e spero anche lo spirito. Mi piace questa foto della stazione, di sottofondo. Perché alla fine è il mezzo con cui mi muovo più spesso e più facilmente quando mi imbarco in uno dei miei "viaggi". Che poi chiamo viaggi anche quando sono poco più di gite fuori porta. Ma sto partorendo l'idea che non mi serva andare dall'altra parte del mondo, per capire cosa mi passa per la testa, e quindi dato che le mie possibilità economiche/familiari/lavorative, non mi permettono di pensare spesso oltreconfine, ho deciso di fare necessità virtù e pensare alla primavera e alla prossima estate come una fonte inesauribile di spunti di gite e viaggi, "fuori porta"  ma che siano capaci comunque di lasciare un "segno". Sfruttando al massimo le poche risorse a mia disposizioni.
Chissà se come idea ha un senso. O se è un'altra delle mie idee farlocche, destinate a svampare con il primo antibiotico.
Mah...

mercoledì 15 marzo 2017

Just Do It




Mi capita, alle volte. Di portarmi addosso questa sensazione di, come chiamarla... Non so darle un nome preciso, è un mix di stanchezza, noia e inconcludenza. Insofferenza. Ecco, potrebbe essere la parola giusta. Diverse cose mi danno fastidio, anche quelle su cui di solito faccio spallucce e passo oltre. C è da dire che, ad esempio, mi rendo conto che la stanchezza e il fatto di avere più di una preoccupazione, non gioca a mio favore. Arrivo a casa particolarmente stanca, e non avendo qualcuno con cui poter parlare e distrarmi, finisce che passo gran parte del tempo con il cellulare in mano. Mi sento in un certo senso intossicata. Anche con il blog alle volte succedeva, negli anni passati. Quando la presenza diventava pressante, tra post, commenti e il "dover" ricambiare visite leggendo a mia volta altri post e via discorrendo. Su fb i testi sono più corti, ma il ritmo più frenetico e finisce che è una continua rincorsa a cercare di capire se ci si è persi qualcosa. Prendere in mano il telefono e scorrere la hompage diventa quasi un gesto compulsivo. E non mi piace. Mi fa sentire dipendente da qualcosa che alla fine non mi appartiene e di cui non resterà nulla. A parte qualche caso sporadico, i veri rapporti, sebbene nati in ambito social, si sviluppano al di fuori di lì. Perderci troppo tempo non è sano. Sento la necessità di arrestare questa corsa al "dire", che poi... dire cosa? e concentrarmi di più su un altro ritmo. Un altro tempo. Ho la sensazione di essere ferma, al limite di girare a vuoto, in tondo. Come un pesce rosso nella boccia. E la cosa mi ha stancata. Ho bisogno di capire cosa mi stia sfuggendo, a parte il tempo, ovvio. E credo che cambiare certe dinamiche sia il primo passo per fare un po' di ordine e ritrovare a focalizzarmi su ciò che è davvero importante.  E mi fa strano pensare che poi non sarà nemmeno tanto facile, perché la cosa più difficile da cambiare sono proprio le abitudini. Ma se ho imparato a camminare di nuovo a 34 anni, allora posso pure cambiare un atteggiamento che non riconosco più come mio. Credo che tornerò qui, dove il tempo e i modi li scandisco io, a modo mio. Anche se poi resterà un discorso solo, tra me e te.


venerdì 27 gennaio 2017

Ricordi...


È una sera di gennaio del 2001, è venerdì e sono passate le otto di sera. Me lo ricordo perché nell’agenzia immobiliare dove lavoro siamo rimasti solo io e G. Suona il telefono.
È un tale sig. Pertini, che vuole vedere un app.to vuoto che abbiamo in vendita, di cui però non ho le chiavi. E lo vuole vedere sabato mattina. L’occhio mi va in automatico all’agenda ma, lo so già che non posso, perché l’indomani ho due appuntamenti e so già che sono due vendite sicure. Me lo dice l’istinto, la pancia.
E comunque non ho le chiavi e non le posso recuperare così velocemente. Il sig. Pertini è arrogante, insiste, alza la voce e dice che vuole comprare assolutamente e lo vuole fare il giorno dopo. Per un venditore significa provvigione. Ma c è qualcosa nella sua voce che mi infastidisce e, non ero farina da fare ostie nemmeno 20 anni fa, al terzo “sono spiacente” non recepito cambio tono e gliele do corte: “guardi, io la richiamo lunedì, se lei domani mattina compra l app.to della vita, buon per lei”. E chiudo. Non ci sono soldi che valgano una tale rottura di palle.
Guardo il foglio che ho in mano, con il nome, un numero di cellulare tim e niente, l’istinto, la pancia, mi dicono NO.  Appallottolo il foglio e lo butto via, con un sonoro “fottiti stronzo”.
L’indomani ho venduto due appartamenti, io e G. visto il bel sole, abbiamo pranzato veloci e poi siamo partiti per un w.e fuori porta. In radio davano “Il cuoco di salò” di De Gregori, era appena uscito l’album. Alzo il volume e canticchio mentre lascio la città allontanarsi dagli specchietti.
Il lunedì mattina ci sono grandi titoli sui giornali. Un agente immobiliare trovato morto domenica mattina, in un app.to a 500 mt circa dalla mia agenzia. Ucciso. Giustiziato da tre colpi.
Padova si sveglia con la paura e l ombra di un “serial killer”, non c è abituata a finire al tg nazionale.
 Il fatto viene collegato ad un altro omicidio di pochi giorni prima, un tassista.
Fortunatamente non passano molti giorni che il “mostro di Padova” viene catturato. Si chiamava Michele Profeta, e “in arte” sig. Pertini.
Forse l’istinto mi ha salvata la vita. Forse mio Padre in quel momento ha messo entrambe le mani sulla mia testa. Però forse è vero che una sensazione, è già una parte di verità.
O più semplicemente, come dice il Cuoco di Salò: “in una bella giornata di sole, dalla parte sbagliata, si muore”.

mercoledì 11 gennaio 2017

Ricordi

 
Ho conosciuto D. poco dopo la separazione.
Qualcuno mi disse che le storie nate subito dopo essere state piantate funzionano, sono più una sorta di riscatto, un modo per dimostrare in primis a sé stesse e poi al mondo che non saremmo certo noi a restare sole. Ma non mi interessava.
D. era bello come il sole, faceva il Vigile del Fuoco a Cinecittà, ed era simpatico come solo i romani sanno essere. E io avevo solo voglia di ridere.
Riuscivamo a vederci solo ogni due settimane..., si viveva appesi al telefono, al pc con le chat, e al binario 1 della stazione. Ma quel fine settimana di maggio Trenitalia piazza uno sciopero proprio nel "nostro" sabato.
Non ricordo di averci pensato troppo, rubo la smart aziendale e alle sette del mattino prendo l'autostrada. Intorno alle due del pomeriggio sono fuori dalla sua caserma che lo aspetto. Tempo di un bacio e di mettere la borsa in macchina, e ripartiamo verso Padova, guida lui, mi tiene la mano e mi dice "tu sei matta piccolé".
Poi aveva ragione quel "qualcuno", la storia non è durata ancora molto. Ma questo è uno di quei ricordi che mi tengo stretti e che mi fanno sorridere. Perché io sono fatta così, perché l'amore è così. Che sia quello "giusto" o no (ne esiste davvero uno sbagliato?) è quello che ti sovverte tutte le priorità. E' quella forza che ti fa macinare mille chilometri in una giornata pur di passare con l'altra persona una manciata d'ore. E' quella cosa che ti fa tremare di paura ma dici chissenefrega, voglio viverla. E, Dio se ti senti vivo.

"Il tuo modo di amare somiglia a una di quelle coperte calde e morbide che si tengono sul divano, non mi ero reso conto di quanto freddo avessi fino a quando non me l'hai appoggiata addosso". è stato uno dei suoi ultimi messaggi. E credo sia ancora una delle cose più belle che mi abbiano mai scritto.

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...