martedì 23 maggio 2017

Inversione di rotta


E' quella cosa che fai, che dovresti fare quando qualcosa comincia a starti troppo stretto, o ti stona addosso. I campanelli d'allarme suonano all'unisono, i segnali li hai già decodificati tutti e in fondo, inutile raccontarsela. Sai benissimo cosa non va e di cosa avresti bisogno, ma come al solito, prendere coraggio e dirlo a voce alta è ben altra cosa. Decidersi a metterla quella mano sulla maniglia poi, non ne parliamo. Più comodo, e meno faticoso sarebbe rimanere fermi tranquilli, narcotizzati al proprio posto e mettere a tacere il tutto impegnandosi in altro. E' così che si fanno passare i giorni di cui ci si dimentica in fretta.
Per fortuna ci sono anche le molle che scattano. Potremmo vederle come trappole per certi versi. Ma se non scattassero con il rischio di lasciarci dentro le dita, non verremmo mai smossi dal torpore. Ho passato dei bei giorni a Torino. Il tempo passato con mia nipote è stato un bellissimo regalo di compleanno, l'accoglienza forte e calorosa degli amici, gli abbracci forti i sorrisi, sentirsi attesa e accolta e coccolata come non capita di frequente. Non puoi non uscirne rigenerata. Momenti che ti tolgono dalle spalle i giorni di polvere e fastidi, che ti fanno ristabilire un contatto diretto con quella parte di te, che le cose le sa ed è stanca di rimanere in stallo. Serviva un'inversione di rotta. Cambiare qualcosa, anche di piccolo, ogni giorno. Stravolgere un'abitudine, anche una di quelle che sembrano innocue ma se osservate da fuori qualcosa da dire ce l'hanno. Ieri sera ho lasciato la tv spenta, ho disinstallato facebook da cellulare, ho preso uno dei libri che mi sono stati regalati e sono rimasta a leggere in terrazzo fino a quando non ha fatto buio. Sembra una sciocchezza quasi una banalità. Ma cambiano le percezioni di quello che ti gira intorno. Passava per strada un ragazzo con un pallone. Lo faceva rimbalzare come se fosse da pallacanestro, ma si sentiva dal rumore sull'asfalto che era uno di quelli vecchi di cuoio. Uno di quelli con cui giocavano mio fratello e i suoi amici, prima che nel campetto facessero un orto per tenerli alla larga. Vecchio cuoio durissimo che faceva un tonfo sordo. Se azzardavi a provare un paio di palleggi a pallavolo ti rovinavi le dita, per non parlare della ricezione che rompeva i capillari dei polsi. Niente da fare, nasceva da calcio e da calcio moriva quando finiva contro i vetri delle palazzine accanto al campetto. Nel silenzio della sera, ho ascoltato il rimbalzo scorrere da sinistra a destra, dietro la casa, fino a scomparire in lontananza. Ho rivisto i capelli appiccicati alle fronti sudate, i giacconi buttati a terra a fare da pali delle porte. Le zanzare che ci rincorrevano ma correvamo troppo anche per loro. Le lucciole al calar del buio e ai falli di mano che non fischiava nessuno. Mio padre che cammina piano lungo la strada chiusa, dopo l'operazione e si ferma a guardare le sue rose contando i boccioli uno ad uno. Quel roseto regalerà rose fino a gennaio, anche sotto la neve, quel dannato anno.
Invertire la rotta significa ritornare in possesso di pezzi di sé stessi, che si perdono nel "non ho tempo, non ho modo, mi piacerebbe ma non posso". Dare modo al proprio io di tornare a parlare, e di ascoltarsi, estraniandosi da tutte quelle informazioni volatili e spesso inutili, che sembrano così importanti sul momento ma poi, a distanza di poche minuti nemmeno le ricordi più. Gesti quasi inconsapevoli che poi sanno quasi di dipendenza. E intanto il tempo che ti lamenti di non avere scappa. Ma non è vero. Non scappa. Lo sprechi.
Ieri è stato il primo giorno in cui non ho ceduto all'abitudine serale del divanocopertinatv. Ma credo proprio che stasera si replichi.

mercoledì 17 maggio 2017

"Cosa mi manca per essere felice?"

Ieri sera, mentre arrancavo per la camera cercando fantozzianamente di infilarmi la ciabatta e decidendomi, una volta per tutte di camminare scalza fino alla cucina, in quella fase di rincoglionimento che precede la perdita di coscienza che mi assale ultimamente quando appoggio la testa sul cuscino (e qui dovrei metterci un punto altrimenti a leggere uno mi va in apnea, ma non ce lo posso mettere perché mi spiace ma manca la chiusura della frase) mi sono fatta proprio questa domanda. (Punto).
Subito dopo mi sono chiesta anche perché fossi così imbecille da pormi domande filosofiche a quell'ora e in quello stato. Credo che parte del mio subconscio si fosse soffermato sul fatto che, il lato sinistro del mio letto attualmente è occupato dalla Melli, dalla mia felpa che è diventata il suo cuscino preferito e dai suoi pupazzetti. La sua scarsa mobilità non le permette molto e io la lascio vivere nel modo più comodo possibile. Ma di fatto, nel mio letto non c è nessun'altro a parte lei. Ed è da un po' di tempo che è così. Fortunatamente la parte di me che ancora litigava con la ciabatta, ed ha un senso pratico maggiore della parte di me piagnucolosa, ha risposto un sonoro "sticazzi! fammi andare a letto che ho sonno" e l'argomentare sui massimi sistemi si è chiuso lì.
Credo di essere arrivata al punto in cui sì, se trovassi uno sguardo in cui specchiarmi, e condividere i miei giorni ne sarei felice. Ma dato che si parla evidentemente di un latitante, non ho nemmeno voglia di preoccuparmi più del dovuto di qualcuno che sì, potrei incontrare ma non è detto. E quindi, no, dovessimo andare per esclusione, non mi manca un uomo per essere felice. E allora?
E allora credo che la domanda sia proprio sbagliata, quel "che ti manca" implica una negazione, un'assenza. Stamattina, mentre guidavo in tangenziale con uno sorriso così grande da farmi male alla faccia, il mio lato sciabattoso mi ha guardata di sottecchi e mi ha detto "lo vedi che ci sei arrivata pure tu? la vera domanda è "Cosa c è nella tua vita che ti rende felice?"
Un sacco di cose. Oh sì davvero. Tipo le poche parole che mi ha rivolto il "Maestro" al telefono. L'idea che finalmente è venuta a sciogliere un passaggio ostico del mio "romanzo". Le chiacchierate con l'onnipresente Ing. che se non ci fosse nemmeno ad inventarlo verrebbe così. La risata della nuova Amica che, in un messaggio di w.app mi racconta di tre giorni tosti, ma sorridendo. Che i sorrisi, se sono veri, li vedi anche con le orecchie. La Melli che contro ogni aspettativa decide di svegliarsi ogni giorno, mia Madre che reagisce davanti a quest'avventura tutt'altro che facile, cucinando ogni giorno qualcosa di diverso. Mio fratello che mi chiama e poi il "grazie" me lo scrive a parte... I biglietti per il salone del libro, che significa il mio primo viaggio con la mia figlioccia. E non vedo l'ora.
Ce ne sono di motivi per essere felici. E non è nemmeno vero che la felicità sta nelle piccole cose, perché, a pensarci bene, i questo elenco, non ci vedo proprio niente di piccolo...

giovedì 4 maggio 2017

pensieri sparsi #hopersoilconto

Partire è uno stato mentale. Un po' come dire sono via di testa, sì ecco è un immagine che rende. Però, almeno in questo caso, sto valutando il concetto di partire come un andarsene mentale.
Si parte per staccare la spina, per cercare un orizzonte diverso, per prendere le distanze da qualcosa o da qualcuno. Per rendersi in qualche modo irraggiungibili o vedere se ci sia qualcuno disposto a rincorrerci. A partire con noi. Quando il viaggio è mentale (e non causato da sostanze stupefacenti) il concetto di fondo non cambia. Spesso, spessissimo prendiamo le distanze da qualcosa o qualcuno, e specie se si tratta di un qualcuno di particolare, si spera in fondo che questo faccia qualcosa per fermarci. O rincorrerci.
Che sia un partire fisico o mentale, prendere le distanze e cambiare direzione è sempre meglio che restare lì infognati, pardon, ad aspettare un qualcosa (o il solito qualcuno) che non arriva. E perché non arriva? Perché non è, o non siamo la persona giusta? Perché non è il momento giusto ma potrebbe esserlo più in là? Perché ci sono mille e un freni inibitori, o scuse, o supposizioni. Insomma quello che si vuole ma chiaramente nessuna idea chiara. E' come arrivare trafelati alla fermata del bus, e trovare il solito vecchietto che dice "eh, c è sciopero" e tira dritto. Ma come? E per quanto? Ma siamo sicuri che non passa?
Ha senso restare fermi? Ci si guarda intorno, si scruta l'orizzonte e poi? Quando mi capita preferisco incamminarmi, arrivo alla fermata successiva, mi riguardo intorno e poi decido il da farsi. Nel maggior numero dei casi, sono giunta a destinazione a piedi. E tutto sommato spesso è pure meglio. Si cammina, si riflette, ci si guarda un po' intorno... Una canzone di Ruggeri che adoro dice "la stasi debilita, l'azione rinfranca". Aspettare è una cosa che mi manda in corto circuito perché significa far dipendere la mia vita e le mie scelte da un'attesa. Preferisco essere io a decidere per me, decidere se restare qualche minuto alla fermata o decidermi a proseguire dritto per la mia strada. Si perde troppo tempo dietro ad un'illusione o ad una aspettativa. Come se alla fine avessimo tutto il tempo del mondo, e invece no. Ed è chiaro non si possa vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Ma non si possono lasciar correre i giorni ipotecandone altri in virtù di un potrebbe essere che, già solo per il potrebbe, non è.
Partire dentro di sé potrebbe rivelarsi il viaggio più faticoso in assoluto. Anche se non ci sono prenotazioni obbligatorie da fare. Le strade della nostra mente sono così strutturate e tortuose da rivelarsi spesso labirinti mal costruiti, e senza via d'uscita. Il percorso è costellato da poltrone comodissime e seducenti, che sono parte della nostra confort zone. Un volta che ti ci siedi di nuovo e inizi a massaggiarti i piedi, finisce che non ti alzeresti più, e ritorni a procrastinare, a vivere nella comodosa idea che il compromesso ci sta, sia parte della vita e vada bene così. Poi se sei fortunata ti passa davanti qualcuno correndo, con una bella falcata e lo sguardo deciso. E nonostante sia sudato marcio ti pare felice, e allora ti rialzi e torni a camminare, perché la voglia di essere felice non ha bisogno di un massaggio ai piedi. Corre anche scalza verso la meta se serve. Siamo solo noi a farle lo sgambetto. E poi è facile, e spesso accade, che si perda il bagaglio. Ma inizio a pensare che il più delle volte sia solo un bene.

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...