Da quale tana invasa dal buio siano usciti quei volti.
Appunti sparsi di un'aspirante narratrice
Quello che vi apprestate a leggere sono impressioni, sensazioni, che il libro mi suscita. Per le recensioni più tecniche vi rimando agli esperti del ramo.
Ho amato questo libro proprio per la leggerezza con cui ci porta a riflettere sulla vita e i rapporti umani, lasciandomi, una volta finito, con la serenità di una bambina a cui hanno regalato un bastoncino di zucchero filato.
È una mattina in cui mi manca un po' il respiro.
La stanza mi sta stretta, i pensieri si accalcano come giocatori di rugby che si muovono al ritmo di un haka che nemmeno gli All Black.
Ogni tanto mi dico: "esco dal bunker e vado a respirare" ma non è la stessa cosa che farlo in faccia al mare.
Ogni tanto ho la sensazione di non aver guardato abbastanza, di non aver detto abbastanza, di non averci provato abbastanza.
Per decidere se comprare o meno una maglia da sei euro ci penso due giorni, per decidere di tagliare i ponti con una persona o con un passaggio importante della mia vita, spesso impiego meno di sei minuti.
E non sbaglio.
Quasi mai.
Il che sembra una contraddizione, certo non ho mai brillato per coerenza, ma per lealtà sì. Mi si trova sempre dalla stessa parte.
Sono una che hai i tatuaggi.
Sono una di quelle che crede nei sempre e per sempre.
Sono giorni che mi manca il respiro.
Per me, per una responsabilità che ho cercato e voluto e un po' mi spaventa ma condivido con un'altra matta idealista come me.
E ogni volta che le parlo mi dà coraggio.
Per un viaggio che non è solo mio, ma pure un po' di qualcun altro.
Per un progetto in cui credo così tanto che non vi so spiegare, ma proverò a farlo nei prossimi giorni.
Mi manca un po' il respiro perché lei oggi mi ha detto "Siamo in Stampa".
E mi manca il mare.
Perché ho scoperto che tra il mare e le ginestre lì, io respiro.
Ci siamo... il 4 ottobre, in libreria.
Ieri sera, mentre guardavo Love Actually, ho pensato che anch'io ho fatto una corsa all'aeroporto. Una di quelle cose che ti passa per la testa perché è estate, fa caldo, le giornate sono lunghe e la luce del sole ti fa pensare in leggerezza che tutto sia possibile.
Non avevo tante informazioni, all'incirca l'orario di partenza ma nemmeno la compagnia aerea... però ho fatto spallucce. Ieri dicevano: "se non ci provi a Natale, quando?". In una sera di mezza estate, così di punto in bianco. Se non rischi non vale, lo dice pure JC.
La mattina mi ero portata un cambio in magazzino, che poi ho tolto un paio di jeans e ho messo un paio di jeans, ho tolto una maglietta rossa, mi par di ricordare, e ne ho messa una nera, che poi alla fine che vuoi che conti cosa metto se sotto ci sono sempre io?
Mi cambio, mi trucco un po', che fa caldo si suda, il rischio di diventare un panda con patente è dietro l'angolo, e parto. L'autoradio mi rimanda canzoni che sembrano scelte apposta, la Minnie scorre sull'autostrada che par che voli pure lei, non c'è nemmeno traffico e arrivo al Marco Polo in pochissimo tempo. Ma davvero è così vicino?
Sono le 18 e 23. Lo so con certezza perché guardo l'orologio, mentre con la mano sinistra chiudo a chiave l'auto. L'ho parcheggiata in quei posti in cui il tassametro è sponsorizzato da Cartier, ma che diavolo, si vive una volta sola. No? Quindi infilo le chiavi in borsa e accelero il passo, attraverso il parcheggio, e le porte a vetro si aprono al mio passaggio regalandomi una sbuffata di aria fresca a darmi il benvenuto, e pare quasi fare il tifo per me. Temo l'aereo, perché non lo guido io ovviamente, ma amo gli aeroporti quanto le stazioni. L'aria profuma di promesse per una partenza e di conferme che sanno di ritorno a casa. Le persone si abbracciano e si voltano ancora una volta, e un'altra ancora, prima di tornare sui propri passi o varcare il gate. Mi viene voglia di partire, l'ultima volta ero da sola e sono tornata a Parigi, c'è un aereo in partenza da lì a un paio d'ore: "ok la roba da film ma non esagerare Syssa", mi dico. E poi mi piacerebbe tornare a Parigi, ma non da sola, non oggi. Non quel giorno.
Faccio un respiro profondo e inizio a cercarlo. Tengo il telefono tra le mani più come fosse una boa di salvataggio che per chiamarlo, non gli voglio dire che sono qui, non ancora almeno, e mi aggiro tra le persone che trascinano trolley e pensieri scrutandone il viso. Alcuni mi ricambiano lo sguardo, altri rilanciano un sorriso. Mi chiedo come devo apparire vista da fuori. I jeans strappati, le scarpe da ginnastica e l'atteggiamento da cane da tartufo. C'è il suo profumo nell'aria? Non lo so... respiro a fondo. Provo a immaginare. Cerco gli occhi, quelli sì sono familiari. Dopo qualche minuto faccio quello che avrei dovuto fare sin da subito: guardo il tabellone delle partenze, trovo la destinazione e quindi la compagnia aerea.
Il pallino rosso lampeggia già: parte tra una quarantina di minuti. Quindi l'imbarco l'hanno aperto almeno venti minuti prima.
Nella mia testa rivedo la scena a rallenty: il mio sguardo che si abbassa sull'orologio mentre chiudo l'auto. E visto che la fantasia non manca, le immagini si sovrappongono al suo braccio che si tende verso la hostess che controlla il biglietto prima di augurargli buon viaggio, la sua schiena avvolta nella camicia bianca, l'attaccatura dei capelli sul collo che sparisce nascosta dagli altri viaggiatori che seguono lungo il corridoio. Il tutto con un'adeguata colonna sonora, che insomma, come narratrice mica me la cavo male.
Stringo il telefono che tengo tra le mani, ma tanto a che serve? Resto lì a guardare il tabellone finché rimanda l'ultima chiamata, e poi ancora la scritta che viene sostituita da un'altra destinazione, altre vite.
Mi sembra quasi di sentire i motori rombare sulla pista. Ho respirato quell'aria ancora un po', prima di tornare alla Minnie. Mentre guidavo verso casa l'autoradio è rimasta spenta.
Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...