giovedì 15 dicembre 2022

L'ignoranza dei numeri - Francesco Paolo Oreste


 "E dietro alla curva del tempo che vola
C'è Sante in bicicletta e in mano ha una pistola
Se di notte è inseguito spara e centra ogni fanale
Sante il bandito ha una mira eccezionale
E lo sanno le banche e lo sa la questura
Sante il bandito mette proprio paura
E non servono le taglie e non basta il coraggio
Sante il bandito ha troppo vantaggio.
Fu antica miseria o un torto subito
A fare del ragazzo un feroce bandito
Ma al proprio destino nessuno gli sfugge
Cercavi giustizia ma trovasti la Legge."

Chissà se tra i mille poeti di cui si circonda l'ispettore Romeo Giulietti c'è anche Francesco De Gregori, perché mentre ripesavo alle pagine appena ascoltate (ho "incontrato" il libro di Francesco Paolo Oreste su Audible), per una strana associazione di idee ho iniziato a cantare Il bandito e il campione. Soprattutto in quel riscontrare e dichiarare la differenza tra giustizia e legge
Sarà. 
Sarà che negli ultimi sei mesi Napoli è diventata quasi casa. Ho disseminato pezzi di cuore lungo tutto il tracciato della metropolitana 2, ma ascoltare il romanzo letto in modo magistrale e con uno spiccato accento partenopeo ha placato la nostalgia che, inaspettatamente, mi ha colta di sorpresa come il freddo. 
La scrittura di Francesco Paolo Oreste si fa assorbire e passa da parte a parte con la potenza di un proiettile, crudele e cruento alle volte, a descrivere una Napoli dalle ombre delineate in pieno contrasto con la luce e i colori dei napoletani che la abitano. Come se la città fosse distinta in due entità divise: quella della criminalità da prima pagina, con cui non senza pregiudizi viene additata, e quella del coraggio, della gente che trova ragioni per vivere, gioire e amare.
Nonostante tutto. 
Poetico e romantico, nelle riflessioni di un ispettore che sceglie il mare alla carriera, che è un tutore della legge ma crede nella giustizia, ma soprattutto nel rispetto della persona. Che comprende ma non giudica. Che ha e dà una sola parola, e non la tradisce. 

Di questo libro ho amato i colori e il buio, l'ironia, gli scambi tra Giulietti e il suo collega Michele Carotenuto, capace di compensare l'animo idealista e aulico del suo superiore, in un continuo botta e risposta che a tratti mi ricordava la comicità di Troisi.
Mi sono ritrovata ferma al semaforo a commuovermi quasi alle lacrime, persa nei pensieri e nei dubbi di un poliziotto fuori dagli schemi, eppure così "normale". Dove normale significa semplicemente l'opposto del supereroe che ogni tanto si incontra e tanto stanca. Romeo è un uomo che vorremmo avere come amico quando siamo nei guai, o più semplicemente quando vorremmo parlare con qualcuno che sappia ascoltarci senza rigirare il coltello nella piaga.
O semplicemente perché la sua sola presenza ci fa sentire bene. 

Un giallo costruito ad arte, un'indagine completa non priva di colpi di scena e di tensione che mi è parsa quasi un pretesto per raccontare altro, molto di più. 
E come sempre mi accade quando scopro uno scrittore di valore, mi avvierò tipo cane da tartufo in cerca di ogni testo leggibile, così da supplire questa sensazione di solitudine che piove addosso all'ultima pagina di un libro che si è amato dalla prima riga. 

On Air: la suoneria dello smartphone di Giuglietti : Je so' pazzo - Pino Daniele 

venerdì 9 dicembre 2022

Love Actually

 Ieri sera, mentre guardavo Love Actually, ho pensato che anch'io ho fatto una corsa all'aeroporto. Una di quelle cose che ti passa per la testa perché è estate, fa caldo, le giornate sono lunghe e la luce del sole ti fa pensare in leggerezza che tutto sia possibile. 

Non avevo tante informazioni, all'incirca l'orario di partenza ma nemmeno la compagnia aerea... però ho fatto spallucce. Ieri dicevano: "se non ci provi a Natale, quando?". In una sera di mezza estate, così di punto in bianco. Se non rischi non vale, lo dice pure JC.

La mattina mi ero portata un cambio in magazzino, che poi ho tolto un paio di jeans e ho messo un paio di jeans, ho tolto una maglietta rossa, mi par di ricordare, e ne ho messa una nera, che poi alla fine che vuoi che conti cosa metto se sotto ci sono sempre io? 

Mi cambio, mi trucco un po', che fa caldo si suda, il rischio di diventare un panda con patente è dietro l'angolo, e parto. L'autoradio mi rimanda canzoni che sembrano scelte apposta, la Minnie scorre sull'autostrada che par che voli pure lei, non c'è nemmeno traffico e arrivo al Marco Polo in pochissimo tempo. Ma davvero è così vicino? 

Sono le 18 e 23. Lo so con certezza perché guardo l'orologio, mentre con la mano sinistra chiudo a chiave l'auto. L'ho parcheggiata in quei posti in cui il tassametro è sponsorizzato da Cartier, ma che diavolo, si vive una volta sola. No? Quindi infilo le chiavi in borsa e accelero il passo, attraverso il parcheggio, e le porte a vetro si aprono al mio passaggio regalandomi una sbuffata di aria fresca a darmi il benvenuto, e pare quasi fare il tifo per me. Temo l'aereo, perché non lo guido io ovviamente, ma amo gli aeroporti quanto le stazioni. L'aria profuma di promesse per una partenza e di conferme che sanno di ritorno a casa. Le persone si abbracciano e si voltano ancora una volta, e un'altra ancora, prima di tornare sui propri passi o varcare il gate. Mi viene voglia di partire, l'ultima volta ero da sola e sono tornata a Parigi, c'è un aereo in partenza da lì a un paio d'ore: "ok la roba da film ma non esagerare Syssa", mi dico. E poi mi piacerebbe tornare a Parigi, ma non da sola, non oggi. Non quel giorno. 

Faccio un respiro profondo e inizio a cercarlo. Tengo il telefono tra le mani più come fosse una boa di salvataggio che per chiamarlo, non gli voglio dire che sono qui, non ancora almeno, e mi aggiro tra le persone che trascinano trolley e pensieri scrutandone il viso. Alcuni mi ricambiano lo sguardo, altri rilanciano un sorriso. Mi chiedo come devo apparire vista da fuori. I jeans strappati, le scarpe da ginnastica e l'atteggiamento da cane da tartufo. C'è il suo profumo nell'aria? Non lo so... respiro a fondo. Provo a immaginare. Cerco gli occhi, quelli sì sono familiari. Dopo qualche minuto faccio quello che avrei dovuto fare sin da subito: guardo il tabellone delle partenze, trovo la destinazione e quindi la compagnia aerea. 

Il pallino rosso lampeggia già: parte tra una quarantina di minuti. Quindi l'imbarco l'hanno aperto almeno venti minuti prima. 

Nella mia testa rivedo la scena a rallenty: il mio sguardo che si abbassa sull'orologio mentre chiudo l'auto. E visto che la fantasia non manca, le immagini si sovrappongono al suo braccio che si tende verso la hostess che controlla il biglietto prima di augurargli buon viaggio, la sua schiena avvolta nella camicia bianca, l'attaccatura dei capelli sul collo che sparisce nascosta dagli altri viaggiatori che seguono lungo il corridoio. Il tutto con un'adeguata colonna sonora, che insomma, come narratrice mica me la cavo male. 

Stringo il telefono che tengo tra le mani, ma tanto a che serve? Resto lì a guardare il tabellone finché rimanda l'ultima chiamata, e poi ancora la scritta che viene sostituita da un'altra destinazione, altre vite. 

Mi sembra quasi di sentire i motori rombare sulla pista. Ho respirato quell'aria ancora un po', prima di tornare alla Minnie. Mentre guidavo verso casa l'autoradio è rimasta spenta.

lunedì 7 novembre 2022

Jean Claude Izzo

 

Se è vero che c'è tempo e modo per ogni cosa, questo detto vale anche per i libri, almeno per me. 
Me ne hanno parlato in molti, in diversi periodi della vita, ma non mi ero mai decisa a leggerlo, perché? Non lo so. Ma passavo dritto pensando ad altro. 
Poi una giornata a Roma, l'idea di farmi un regalo, un messaggio che arriva al momento giusto e dei tarocchi che, un po', ti fanno pensare. E tra storia, sentimenti e un pizzico di magia scatta la scintilla e Izzo torna a Padova con me. 
Non sono una persona che legge in fretta. I libri li tormento: leggo, torno indietro, sottolineo, e sì, faccio anche le orecchie alla pagina. Perché un libro è come un amante: lo devi vivere, respirare, mordere se ti viene voglia. Come dice Fabio: si deve amare accettando il rischio di perdere, e il rischio di perdere non passa per una vita dalle pagine intonse. 
Frasi tagliate con il bisturi. Una Marsiglia dai toni freddi e colori cupi stesa al sole violento del Mediterraneo. 

Parlando con lui, raccontandogli le mie sensazioni, ho detto che le pagine di Izzo mi ricordano le tele di Caravaggio. Il buio, profondo angosciante spezzato da tagli di luce che accecano. Lo stesso tormento. 
Fabio Montale è un uomo che prenderesti per le spalle, lo scuoteresti con forza per togliergli di dosso quel rimpianto in cui annega mescolandolo al whisky. Ma è impossibile non amarlo. Impossibile non trovare nei suoi occhi la stessa lama di luce del pittore milanese. Nonostante la morte lo perseguiti rincorre l'amore e tutta la sua forza travolgente, anche se è un artista nel lasciarselo sfuggire dalle dita. 
Lui e il suo chiodo fisso. Lole. 
Leggere Izzo è faticoso nei primi 30 secondi, poi prendi il ritmo e ti rapisce ti trascina con sé tra i profumi delle erbe e delle spezie di una realtà multietnica e tormentata. Nello schifo e nella morte dove ci si trova a muoversi con il fango alle ginocchia e le mani imbrattate di sangue. 

L'idea era quella di leggerlo, di assaporarlo pian piano, studiandone le sfumature. Non ci sono riuscita. Ho finito la trilogia in due settimane, vissute con un'intensità che non ricordavo, soffrendo ad ogni colpo di pistola o ferita da taglio. Ho sperato che la vertigine cambiasse, man mano che leggevo ma pare che la vita si faccia gli affari suoi anche nei romanzi. Non bada a noi lettori. 

Mi sento improvvisamente sola. 
Come se un amico fosse partito senza salutare, se ne fosse andato distante lasciandosi alle spalle solo il silenzio di una scelta non contrastabile. Chiudere l'ultima pagina e sentire violenta, alla bocca dello stomaco, la sensazione di perdita. 
Questo è Scrivere. 

domenica 4 settembre 2022

I biker boots (racconto pubblicato da La Repubblica il 16.06.22)

Una delle cose che ho ereditato da papà è la sua scala da imbianchino. Nonostante avesse più di cinquant'anni di onorato servizio permetteva a me, zitella e puffa, di cambiare autonomamente le lampadine, raggiungere la parte più alta dell'armadio e degli stipetti della cucina. 
A quella scala voglio bene, nonostante soffrissi di vertigini e riuscissi a malapena a salire fino all'ultimo piolo. Ha ancora sull'acciaio tutti i segni delle varie tinteggiature di casa nostra, un arcobaleno di ricordi mescolati ai colori. A ben guardare troverei ancora l'azzurro confetto quando nacque mio fratello, e il bianco panna di quando nacqui io, dal momento che condividevamo la stessa camera e il colore neutro evitava inutili battibecchi.
Mi ha accompagnata nei tanti traslochi e in quasi tutte le mie faccende fino a quando il legno della pedana ha iniziato a scricchiolare a ogni salita e no, prima che lo pensiate, non dipendeva dal mio peso. Certo, la usavo con parsimonia benché fossi convinta che non mi sarebbe successo nulla: mio padre, dall'aldilà, non l'avrebbe permesso. 
Invece, qualche mese fa, l'amata scala si è arresa all'inclemenza del tempo e a rischiare lo schianto è stato il tecnico durante la pulizia della caldaia, anima santa. Ma grazie al suo fisico atletico e a me che l'ho afferrato al volo, non si è fatto nulla. (Avreste dovuto vederci: lui appeso alla caldaia, io che lo reggevo per le gambe come si faceva con gli impiccati nel vecchio West. Potrei serenamente definirlo il contatto più intimo avuto con un uomo negli ultimi sei mesi.) A ogni modo, la scala sta bene. 
Si gode il pensionamento e la sua nuova vita, che col cavolo che la butto. Mi sono inventata di trasformare i suoi pioli in porta scarpe. O meglio dovrei dire in porta biker boots che sono gli stivaletti che adoro, uso con più frequenza e sono diventati, negli ultimi dieci anni, la mia copertina di Linus.
Dovete sapere che ho sempre amato i tacchi. Vivevo sui tacchi, correvo incontro alla vita sui tacchi, non ho mai giocato a tennis altrimenti credo avrei fatto pure quello, sui tacchi.
Fino a quando il destino non si palesò sotto forma di un incidente stradale che parcheggiò la mia vita, di lato, per un anno e mezzo: tempo che mi servì per aggiustare ossa e legamenti, oltre che imparare a camminare di nuovo. 
Le cose andarono all'incirca così: dopo aver volato al di sopra dello scooter, ho spalmato la mia tibia sinistra lungo sei metri di asfalto, centimetro più o centimetro meno. Il primario di ortopedia si avvicinò a mio fratello e, abbassando gli occhiali fin quasi alla punta del naso, gli disse una cosa tipo: «Cercherò di semplificare, immagini di avere tra le mani un pacco di farina e lo sbatta con forza a terra. Ecco, la tibia di sua sorella ha subito un trauma molto simile. Se avesse avuto quest'incidente solo cinque anni fa, probabilmente avremmo amputato. Ma sua sorella è fortunata: sua sorella ha me». Mio fratello spostò parte dell'ego ingombrante del chirurgo dalla propria faccia e annuì con l'espressione di chi pensa: “Faccia un po' come le pare, ma la rimetta in piedi”. 
Scoprendo di avere la mia stessa passione per il riciclo, il chirurgo prese una parte dell'osso del mio bacino e lo schiaffò sotto al ginocchio, poi puntellò il tutto con due placche di titanio e un numero non meglio precisato di chiodi. Non sciolse però la prognosi proprio bene: avrei camminato? Sì. Ma sul come non era dato di sapere. O meglio: le espressioni, le alzate di spalle e prolungati e sospirati silenzi non lasciavano presagire prospettive rosee, ma… A volte l'unica salvezza in un momento così difficile è... fare gne-gne. 
Gne-gne al pessimismo cosmico, alle sentenze senza grandi speranze, a chi solo guardandoti pensa di aver capito di che pasta sei fatta ed essere in grado di vedere il tuo futuro riflesso nel flacone della flebo. 
Gne-gne a un destino che vedi avverso e che sembra portarti via se non tutta una buona parte della tua vita, quella delle passeggiate in montagna, delle maratone con le amiche, dei corsi di tango argentino, anche se forse non hai mai voluto iscriverti a un corso di tango ma nel momento in cui ti dicono che non potrai mai più allora, e solo allora, scopri di essere una tanghera mancata.  
Per non parlar dei tacchi. Che ne sarebbe stato delle mie scarpe con il tacco? Dello sculettare con passo audace e seduttivo? Provai, credetemi, a usarle ancora. Il dolore era inaffrontabile. E non era solo una questione di scarpe.
Immaginate il mio sollievo quando, in uno dei tanti momenti di cazzeggio in rete, venni a scoprire che anche Coco Chanel prediligeva la comodità, una delle sue celebri frasi è: “la vera eleganza non può prescindere dalla piena possibilità del libero movimento”. Amava, quindi, le scarpe basse perché si deve incedere sicure verso la vita.
Leggere quelle poche righe cambiò ogni mia prospettiva.
Certo, forse Mademoiselle non pensava a degli stivali da rocker, ma sono dettagli.  
Amo i biker. Sono diventati il mio punto di riferimento. Al contrario di me si sposano facilmente: che sia con i jeans o il classico tubino nero non importa; che li si indossi in inverno o, per chi ama gli azzardi, con la bella stagione, sono comodi sempre.
Mi fanno sentire al sicuro, sorretta e salda sulle mie posizioni. Perché, diciamocelo: la scelta delle scarpe, per una donna, non è una mera questione estetica.
È uno stato mentale.
Se i tacchi alzano l'orizzonte visivo, danno la sensazione di slanciare la gamba e rendono seduttiva, i biker ti donano una stabilità anche emotiva. Ti fanno procedere a grandi falcate verso il futuro, resistere contro la pioggia torrenziale o un destino impervio, sostengono i tuoi passi e pure i calci ben assestati, all'occorrenza.
L'incidente mi ha insegnato a camminare più piano, a rispettare il mio tempo e il mio corpo e a fermarmi quando è il momento, i biker mi hanno permesso di accettare il mio essere imperfetta e a vivere la mia invalidità con stile. Per me sono un simbolo, se non di rinascita, sicuramente di ripartenza; ma soprattutto di presa coscienza della mia forza e della mia ostinazione, quella che mi ha permesso di tornare a camminare quasi come prima, alla faccia delle premonizioni scettiche e disfattiste. Come se un po' del loro carro armato avesse rivestito il cuore impedendogli di spezzarsi, e facendogli trovare la forza di andare avanti. 
Ma se volessi sculettare in modo audace e seduttivo? Quello lo posso fare pure scalza.

domenica 24 aprile 2022

Piove deserto - Ciro Auriemma e Renato Troffa

 
Davide e Leo sono amici da che hanno memoria, uniti da un legame fraterno che sembra destinare a durare per sempre. 
Ma, come spesso accade, il per sempre è un concetto relativo anche nei rapporti e nei sentimenti. Esiste fino a quando almeno uno dei due ci resta aggrappato con tutte le sue forze. 

E così mentre Leo lascia Carloforte e rincorre una vita diversa da quella di suo padre e quanto più possibile distante da tutto e tutti, Davide resta nella sua Sardegna e costruisce la sua famiglia e prova per anni a mantenere il legame vivo con quel fratello sempre più distante, e non solo per i chilometri geografici. 
Ma a distanza di quasi trent'anni è proprio Davide a costringere Leo a tornare a casa.
Morendo.
Di una morte sospetta, che come in ogni paese piccolo che si rispetti, dà più spazio ai pettegolezzi e ai dubbi. Ci torna per amicizia, forse, ma soprattutto perché incaricato dalla sua agenzia di investigazione a condurre un indagine per conto della compagnia assicurativa. Davide è davvero morto all'interno della fabbrica dove lavorava? O era scappato da qualche parte con un'amante? O ancora, poteva aver scoperto una verità persino più grande di lui e aver pestato i piedi sbagliati?

Quella raccontata da Auriemma e Troffa è una Sardegna lontana dalle spiagge di turisti svogliati e il profumo del mirto decantato in mille e più modi. Un odore in particolare mi ha accompagnata durante la lettura: odore di ferro e di acido. Non so se vi sia mai capitato: in una delle mie vite precedenti lavoravo in una ditta di ricambi auto e in magazzino avevamo un muletto. Quando lo si metteva sotto carica l'acido delle batterie iniziava a ribollire e, anche se ero troppo lontana per sentire il ronzio dell'elettricità, me ne accorgevo perché l'acido mi creava uno strano prurito ai denti. Non saprei come altro descriverlo. Durante la lettura del romanzo quel prurito mi ha fatto compagnia, mantenendo sempre alta la tensione e l'attenzione. 
Leo non è un personaggio facile, come non lo è il suo passato e tanto meno il suo presente. È un uomo che ha perso. Su tutti i fronti.
Ma la narrazione in prima persona ci costringe a sederci, camminare, piangere e godere, anche, con lui. Il dolore delle botte, le ferite mai rimarginate. Osserviamo la vita con i suoi occhi, quelli di un uomo che non è mai stato e non si trasformerà in un eroe nel corso della storia; gli occhi di un uomo che prova, con i mezzi che ha, a fare del proprio meglio nonostante la sensazione di inadeguatezza che lo accompagna costantemente.
Eppure si fa fatica a non entrare in empatia con il suo dolore, tanto che ad un certo punto le carte si mescolano e se da un lato c'è un mistero da risolvere, dall'altra c'è una vita da rimettere in piedi e si seguono entrambi i filoni con la stessa passione. Perché, alla fine, Leo potrebbe essere uno qualsiasi di noi ma spogliato di tutto ciò che è "sicurezza" nella nostra vita. Uno di quei casi in cui saremmo tutti disposti a dire "a me non capiterebbe mai" fino a quando non ci si trova proprio nel mezzo del ciclone. 

Così come spesso accade nei romanzi di Camilleri, anche in quello dei due autori sardi, l'indagine è l'occasione di raccontare anche dell'altro, sposando l'attenzione ora su un piano, poi sull'altro senza mai perdere di vista l'obiettivo ultimo.
E sarà ancora una volta Davide ad accendere una luce nella vita di Leo, segno che quella sua amicizia ostinata e la perseveranza nel voler tenere vivo il loro rapporto, l'aver faticato per entrambi non è stato vano. 

Ho letto questo libro in un pomeriggio, con quella fame che arriva dalla voglia non solo di conoscere una storia, ma di scrutare il dietro le quinte della sua struttura. Mi sono ritrovata all'ultima pagina con un mix addosso: tristezza e nostalgia, come quando si è alla stazione pronti per tornare a casa e si vorrebbe invece fermarsi ancora un po' in quel posto e non lasciare quegli occhi che fanno, ormai, un po' parte di noi.
Ad averlo saputo, probabilmente, l'avrei letto con più parsimonia.                                                              

martedì 19 aprile 2022

Alma che visse in fondo al mare - Martin Rua

Doverosa premessa: questa non è una recensione, non nel senso più tecnico della definizione. Per un motivo molto semplice: non sono un critico letterario. Sono solo una persona che legge, non quanto vorrebbe, a cui piace discorrere di libri, soprattutto quelli che le sono piaciuti. Se leggo libri che non mi conquistano glisso, per due motivi altrettanto semplici: la bellezza sta negli occhi di chi legge. Banale forse, ma tant'è. Non detengo certo la verità universale. Inoltre,  un libro porta con sé una storia sotterranea di energie investite, tempo rubato alla famiglia, agli hobby o al cazzeggio. Quindi merita rispetto, a prescindere.

Quello che vi apprestate a leggere sono impressioni, sensazioni, che il libro mi suscita. Per le recensioni più tecniche vi rimando agli esperti del ramo.

Che io abbia un'ammirazione sconfinata per Martin Rua è risaputo, ma credete: non sono io di parte, è lui che scrive dannatamente bene. 
Dalla scrittura sapiente di Martin mi sono lasciata accompagnare a Procida, in una storia lontana dai thriller da tachicardia a cui mi ha abituata, ma immersa in una morbida storia di arte e cuore, dai caldi profumi di un'estate degli anni '60. I protagonisti due ragazzi, Alma e Napoleone. Quasi una dea lei per bellezza e intelligenza, giunta nell'isola che ha dato i natali a suo padre per una vacanza. Un artista lui, spesso accostato a Caravaggio per il suo grande talento ma in prestito all'attività di pesca del padre.
La magia del loro incontro si riverserà su tutta l'isola e non tarderà a sfiorare ogni suo abitante; non mancano il mistero, la magia, la superstizione e quella sfumatura di esoterico che ci accompagna tra i vicoli e le onde. Di pagina in pagina Procida si mostrerà in tutta la sua prepotente bellezza, non come semplice scenografia di una storia ma come personaggio principale. Sempre presente ma non ingombrante. 
La scrittura di Martin, poi, non ha bisogno di presentazioni: i tratti poetici a volte lirici delle descrizioni, le battute e l'ironia in punta di fioretto, metafore mai banali e linguaggio ricercato senza essere mai astruso, rendono la lettura scorrevole, un pizzico romantica e spesso divertente. 
Uno di quei libri che, un volta finiti, li si guarda già con un po' di nostalgia nel riporli in libreria

lunedì 14 marzo 2022

Virgole Anarchiche

 

-  Perché Virgole Anarchiche?
Perché più che selvagge le virgole sanno essere delle vere combattenti anarchiche.
Ci hanno insegnato a usarle per cadenzare il tono e il respiro, ma se mentre scriviamo ci piglia l'ansia le si mette un po' così, con spirito di goliardia. 

-  Cosa offrono le Virgole Anarchiche? 
Un servizio come redattrice freelance, scrittura di memoriali, correzione testi e delle tesi di laurea, temi, battitura e trascrizioni, lettere aziendali e pure quelle sentimentali se volete tirar fuori il Cyrano che è in voi ma proprio non vi riesce. 

- Perché è importante ripulire un testo prima dell'invio a un cliente, alla tipografia o a una casa editrice?
Perché se è vero che ogni singola parola che riversiamo sulla carta è sinonimo di lacrime e sangue, è altresì vero che presentare a una casa editrice, al relatore, all'oggetto dei nostri desideri un testo sudaticcio, insanguinato e carico di refusi non è un bel biglietto da visita. Sarà un po' come portare il vostro abito migliore in tintoria e riprenderlo pulito, stirato e profumato, pronto per vivere il grande momento. 

Per ogni informazione potete contattarci a: virgole.anarchiche@gmail.com 


Vi aspettiamo! 

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...