lunedì 22 febbraio 2021

Singletudine al tempo di Covid19

 

Essere single non è drammatico. Non ho mai pensato lo fosse, invece ho spesso ribadito che se una persona decide di entrare nella mia vita, dovrebbe farlo con cognizione di causa: se non ha intenzione di risolvere con me parte dei problemi, almeno non me ne causasse di nuovi. Le ultime esperienze invece sono state una peggio dell'altra. 
E sorvolo volentieri perché certa gente nemmeno merita di essere ricordata. 
Vivere soli non è di fatto così male, puoi dormire di traverso occupando tutto il letto, cenare con quello che vuoi, quando vuoi, indossare improponibili pigiami rosa e puffosi, e guardarti tutti i film lacrimevoli possibili durante le crisi premestruali. 
La pandemia però ha aperto delle crepe anche nell'idillio della solitudine, perché ha stroncato anche tutte quelle attività palliative che aiutano a superare i momenti meno facili: gli incontri con le amiche, lo struscio in centro, il vagabondare per negozi e librerie, una cena con un amico speciale. 
Un'amica, qualche giorno fa, dopo l'ennesimo femminicidio scriveva che è difficile spiegare i pensieri che si fanno all'inizio di una conoscenza, o di una relazione. Perché è inevitabile chiedersi chissà come sarà dopo, come potrebbe reagire nel caso ci trovassimo a dire che non funziona. 
E allora se sommiamo le cose: la paura di incontrare qualcuno che metta a repentaglio la nostra sicurezza, contrapposta al desiderio e all'impossibilità comunque di conoscere qualcuno personalmente, il dover delegare gran parte della comunicazione al virtuale con tutti i limiti del caso, perché tra coprifuoco zone con limitazione di spostamento finisce che se vuoi provare ad allacciare un rapporto con qualcuno per andare sul sicuro dovresti provarci col vicino di casa. 
Inutile dirvi che l'ufficio, posto al mio stesso piano, è sfitto. 
Ad ogni modo, si continua a procrastinare: cene, incontri, viaggi... ci si disabitua al contatto, al piacere di preparare una cena e apparecchiare la tavola, indossare i tacchi pensando di farlo non solo per sé stesse.
Ci si dimentica cosa significa sfiorare la pelle che rabbrividisce, e nel frattempo si impara a soffocare il desiderio perché tanto non ci si può toccare; si guarda con invidia chi si bacia nei film chiedendosi quando, e se, ricapiterà.
Ma soprattutto, ci si augura che sia un po' come andare in bicicletta: dopo i primi secondi di imbarazzo e impaccio, si riesca a trovare una sorta di equilibrio che permetta di gustarsi il sole e il vento sulla faccia... 

giovedì 11 febbraio 2021

Cloe e Pablo approdano in Newton Compton.

 
Cloe e Pablo approdano in Newton Compton. 
E non per gli ottimi tramezzini che Cloe di tanto in tanto prepara, ma perché le loro storie sono piaciute. 
La verità? Io che con i due ci convivo, come prima cosa ho pensato "e mo son ca**i", perché il gioco che era diventato sogno, ora ha acquisito una dimensione di realtà tale da esaltarmi ed inquietarmi nello stesso tempo: quando qualcuno crede in me, la mia prima preoccupazione è quella di non deluderlo. 

Invece Pablo ha preso la cosa con la filosofia che gli appartiene, ha annusato la copia del contratto e ci si  messo a dormire sopra. 
Cloe ha dovuto silenziare la chat con Rebecca: è da ieri che le manda consigli estetici e di outfit, che qui la cosa s'è fatta seria, mica vorrà continuare ad affrontare banditi vestita come una profuga (senza offesa alcuna per i profughi.)
Insomma, il mio tripolarismo sta toccando livelli che nemmeno durante il lockdown. Però è una bellissima sensazione.
Ve lo garantisco. 


domenica 7 febbraio 2021

Mio padre rideva...

 
La mia famiglia è stata toccata da due lutti in nove giorni. 
E se uno, forse, ce lo si poteva immaginare, il secondo ha lasciato spiazzati tutti. 

Increduli e disarmati ci si ritrova a spostarsi tra una stanza e l'altra non sapendo dove toccare. È faticoso mettere le mani nei cassetti che non ti appartengono, nella quotidianità di un frigo che va necessariamente svuotato, un bagno schiuma appena iniziato, un rasoio ancora attaccato alla corrente con la promessa di un altro utilizzo. 

Mi sono state date le foto di famiglia. 
Avevo chiesto in particolare quelle di mio padre, e ora custodisco un patrimonio di storia che non avrà, certo, la S maiuscola, ma è parte della mia storia. Sfoglio pagine di foto ingiallite con volti che non sorridono più da tantissimi anni, molti da ben prima che io stessa nascessi. 
Alcuni ritratti sembrano già scattati nell'ottica di una foto funebre, tale è la posa e la serietà dei visi. Occhi che hanno visto entrambe le guerre, la fame. Se provo ad immaginarli a vivere, mi ritrovo a farlo con la stessa scenografia seppia in cui uno scatto fumoso li ha cristallizzati. 

Invece mio padre rideva. 
Nelle foto di ragazzino e poi di giovane uomo, oltre ad assomigliare vagamente a Franco Battiato, mio padre rideva. 
E faceva le facce. 
Giocava e scherzava con i commilitoni, abbracciava i fratelli, si faceva ritrarre in una posa che scopro appartenermi da sempre, e spesso con una sigaretta tra le dita. Ricordo che, nei miei sogni di bambina, spesso mi vedevo tornare a casa a trovare i miei, ero sposata e nel mio immaginario mio padre mi offriva una sigaretta e poi ci si metteva a parlare. 
Non si è avverato nulla di tutto questo. 
Nemmeno fumo. 

Ma lui rideva. 
E il suo sorriso apre una breccia in quelli che sono i miei ricordi, dove il nastro ha smesso di registrare quando avevo appena 10 anni. Ho poche immagini di lui adulto, perché era lui il fotografo della famiglia, e il suono della voce l'ho persa tanto tempo fa. Fatico a comprendere come possa io essere più vecchia di lui, oggi. 
Giro intorno a mio fratello, e quando ha voglia di raccontare faccio miei i suoi ricordi, provo a tradurli, mi sforzo di confrontarli con il poco che mi è rimasto ed è come riportare alla luce dei reperti di valore inestimabile. Alle volte mio fratello lo fa sovrappensiero: "mio padre diceva..." e io segno, prendo appunti, mi tatuo la frase sottopelle e provo a tenermela stretta. Provo, per quanto possibile, a recuperare frammenti di sonoro e immagini.
Mio padre rideva. 
E se è vero che ho perso tantissimi ricordi, e molti altri invece lo vedono sofferente, sfogliando queste pagine ho acquisito una maggiore consapevolezza di qualcosa che, probabilmente ho sempre saputo: a lui la vita piaceva.
Sempre, comunque e nonostante tutto.
Era nato nel 1946, con tutto quello che poteva significare per il Paese in quel momento. Ma lui nelle foto sorride. 
Gli piaceva ridere, sorridere e giocare. Fare le facce e l'imitazione dell'Orso Yoghi. Anche in una domenica troppo breve, trovava il modo di ridere lasciandoci guardare Asterix invece del telegiornale. Scoprire e riscoprire i suoi sorrisi, credo sia uno dei modi più belli di ricordarlo.
E dire a me stessa, di tanto in tanto, che sì può pure essere una merda alle volte, ma merita di essere vissuta fino in fondo e, potendo o volendo, ridendoci su. 

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...