martedì 14 aprile 2020

Ma io boh


All'inizio di questi giorni sospesi ricordai quei mesi chiusi dentro casa dopo l'incidente. Quattro mesi in 27 mq. 
Uscivo "solo estrema necessità" 2 ore, tre volte la settimana per la fisioterapia. E poi comunque nemmeno gli otto mesi successivi furono semplici, non ero sulla sedia a rotelle ma camminavo solo con le stampelle, non si poteva certo definire un carnevale. 

Ricordo perfettamente che non fu affatto facile, però li superai. In questi giorni mi sono chiesta quale fosse il mio stato d'animo. Sicuramente era molto diverso, nel senso che all'interno delle mura domestiche la situazione non era per nulla semplice, ma fuori il clima era assolutamente normale. Ero io a guardare il mondo attraverso i vetri e a sentirmi tagliata fuori, ma lì fuori tutto procedeva con il suo normale ritmo. Non è poco. Oggi chi è chiuso dentro è al sicuro, magari non dai propri demoni, ma è al sicuro. E il mondo là fuori è pericoloso e disarmante. 
Ma a parte questo, certo, il tempo che passa sfuma i ricordi rendendoli più piacevoli o comunque placandone i picchi negativi. Senza contare un dato fondamentale che mi era sfuggito. La codeina! Assumevo dosi costanti di antidolorifico (sotto stretto controllo medico, chiaramente) e forse pure quello aiutava! 
Un mese chiusa dentro casa, di cui 15 giorni in isolamento a causa di una febbricola fastidiosa più che pericolosa. Impossibile spostarsi anche per l'urgenza o per far la spesa. Secca dirlo, ma devi chiedere aiuto. E perché "secca" chiedere aiuto? Era una cosa che mi diceva anche la sciamana anni or sono: "devi imparare a chiedere aiuto quando serve". Forse non è tanto la paura di disturbare il prossimo, che sì, è intrinseca nel mio carattere ma insomma... se non posso, non posso. Non potevo  uscire, non potevo essere io ad assumermi la responsabilità. Mi è toccato delegare.
Ecco qual è il discorso. Ammettere che non puoi essere tu al centro e delegare.
Non hai i super poteri, non puoi fare tutto da sola, non puoi controllare tutto. Credo che sia questa una parte destabilizzante. Non si può controllare nulla, in questi giorni. Si è in balia delle onde. Chiedere aiuto a chi ti sta accanto è l'unico modo per uscirne, ma è quello che ti fa ammettere che da sola vali zero. Che il mondo va avanti senza la tua mania di voler gestire razionalmente tutto. Vivere alla giornata per noi popolo di programmatori compulsivi è drammatico. Eppure. 
Eppure passano i giorni, esci dall'isolamento e puoi finalmente mettere il naso fuori di casa e... portare via la differenziata.
Soprattutto renderti conto della banalità delle banalità: il sole è sorto e tramontato anche senza il tuo smadonnare ai quattro venti. 
Forse è quello che ci spaventa, che ci spinge a restare connessi sui social in cerca un appiglio, a dire e scrivere, a mostrare cosa facciamo, le torte che impastiamo e come passiamo il tempo. È un modo di dire "ehi, sono qui, mi vedi?". È un modo di avere il controllo e di stabilire una parvenza di rassicurante abitudine. Ma l'essere socialmente asociali non è la nostra natura. Abbiamo bisogno di contatto, di mani da stringere, di occhi da incrociare. Abbiamo bisogno di sentire il profumo della pelle di qualcuno che ci scalda l'anima. 
Dal canto mio, benché non sia mai stata una grande dispensatrice di abbracci, se continua così appena usciremo da questo delirio abbraccerò pure il palo della luce. 
Con guanti e mascherina certo. 

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...