mercoledì 26 dicembre 2018

Il gatto che non è proprio mio - Luana Troncanetti

Nei giorni di vacanza ricomincio a leggere. 
Diventa quasi una necessità compulsiva rispetto ad altri tempi. Leggo sul divano, immersa nella vasca da bagno, e più classicamente a letto. Dividere lo spazio libero con libri, kindle e sogni fa meno "vuoto intorno", il problema nasce quando la sera ti infili sotto al piumone e, nell'enfasi di coprirti fin sopra le orecchie, fai volare il kindle sul pavimento. 
È Natale, le imprecazioni vengono adeguate al vecchio adagio "siamo tutti più buoni, anche tu che c'hai la maionchite". Funzionerà? Ti prego, fa che funzioni... Accendo, si accende. E i file? Si aprono? Prego e provo. 
Apro "Il gatto che non è proprio mio", di Luana. Ti pare che un'amica scriva un racconto con un titolo così e io non ce l'abbia? 
Il file si apre, ok, proviamo a leggere e a girare pagina. Pare che san Aranzulla abbia fatto il miracolo tutto funziona... leggo un paio di pagine e poi chiudo. 
Leggo un paio di pagine, e poi ancora due... e... 

E mi ritrovo in una tenda durante un terremoto. Io che durante un terremoto sono venuta al mondo, che li sento anche quando li sento solo io e gli altri non mi credono, meno che mai quando li sento "prima" con le vertigini e la nausea. Mi ritrovo al freddo, negli Appennini marchigiani, con una donna che potrebbe essere mia nonna, ruvida come la terra sotto lo spesso strato di ghiaccio. A ripercorrere con lei la sua vita, l'Amore perduto, la Guerra, e il marito disperso in Russia.
Rivedo mio nonno, tra i pochi sopravvissuti di quella campagna perché un amore che parlava straniero gli ha insegnato a pattinare sui fiumi ghiacciati. Fu tra i pochi disperati a tornare, e tornare intero grazie a quel gesto. 
Il kindle vola per terra, e apre uno stargate nella nostra Storia più recente. Quella snobbata, quella poco studiata, quella che abbiamo dimenticato più in fretta. Perché "la Storia siamo noi, padri e figli, siamo noi, Bella Ciao, che partiamo...".
E poi c'è il gatto. Libero di andare e venire e di essere. Caldo e consolatore di quell'anima sola. 
Sarà per questo che ne ho adottati tre. 
Se nulla capita per caso, se nessuno si incontra per caso, anche dimenticare il kindle sul letto nascondeva un senso più profondo della mia sbadataggine. 

martedì 11 dicembre 2018

"Sogni di destino"

Alla fine è arrivato. 
Ma prima del contratto c'è stato l'invio della mail, e l'attesa. Una partenza che sembrava buona e il successivo lancio del plico dal balcone.
Coreografico eh, per l'amor di Zeus, ma un filo demoralizzante. 
Un viaggio verso il mare con il magone del rifiuto, un giorno di sguazzamento nell'autocommiserazione a tempo de "me tapina me desperata". Poi c'è stato il profumo della focaccia pugliese, la mail di un'amica incoraggiante, le pacche sulle spalle di chi mi ha detto "non smettere di crederci" e chi ha suggerito di mollare e pensare ad altro. E magari avrebbe avuto pure ragione se... se non ci fossi io qui.
Il punto è che sono ostinata. Al limite della cocciutaggine acuta. Insomma, sono fastidiosa. E non mollo. Io sono quella che non molla, mai. Mi butto, magari mi schianto, ma un altro tentativo lo devo fare.
L'altro giorno MammaSys in auto mi ha detto "Tu negli affetti sei come un'edera. Tu non abbracci, tu avviluppi e cazzo non molli. Quando vuoi bene ad una persona l'avvolgi a proteggerla e guai a chi solo pensa di ferirla". E l'ho trovata una bellissima definizione.  Ed è vero, io non sono per le mezze misure. I miei affetti sono smodati, e sono così anche per i progetti in cui credo.
E finché ho tra le mani qualcosa di incompleto, finché non ho raggiunto l'obiettivo che mi sono fissata, non ho soddisfazione. Così ci sono stati giorni di caldo e di revisioni, ho smontato e rimontato, ho cercanto toni più cupi e mi sono imbattuta in quei guizzi d'entusiasmo che fanno parte di me e che non riesco a tenere fuori dall'inchiostro. C'è stato un ritorno inatteso, un "proviamoci di nuovo".
E poi l'epilogo.
Al supermercato tra latticini e succhi di frutta il tanto atteso "benvenuta a bordo".
Non ricordo nemmeno di aver cenato.
Ho taciuto per qualche mese, mi sono morsa la lingua e ho fatto la gnorri. Avrei voluto scriverlo anche sui muri di casa, ma ho temporeggiato, quasi fosse che tenere la notizia per me, coccolarla nel silenzio le impedisse di rompersi. Sarà che sono, a fasi alterne, ancora incredula. Sarà che quando mi arrivano gli sms con le conferme delle presentazioni mi tremano le gambe.
Sarà...
Sarà che sono pure fortunata. Diciamocelo.
Che sì, non sono mancati quelli che mi hanno suggerito di darmi al punto croce o di lasciar perdere. C'è chi ha provato a smontare quel visionario del mio Editore (ah... come suona bene "il mio Editore"), e chi si è complimentato a denti stretti.
Ma la maggior parte delle persone che ho accanto mi sono state vicine e hanno sempre fatto il tifo, credendoci anche quando ero proprio io a vacillare. Ecco, non per filosofeggiare sul viaggio e sul traguardo, ma quello che mi resterà dentro, indipendentemente dai risultati che otterrò, sono tutti quegli aneddoti che fanno parte della storia di questo libro, quelli che sono racchiusi tra le pagine ma sfumati negli spazi bianchi tra una parola e l'altra.
I messaggi con Chiara, le paturnie sulle spalle di Patrizia, le folgorazioni mistiche di Cristina, l'angoscia riversata nelle orecchie dell'Ing. Le foto scattate sul posto, le passeggiate per il cimitero come fosse un luogo ricreativo, le chiacchierate con MammaSys e i ricordi del nonno. Per non parlare del dramma epico del trovargli un titolo.
Quando ho preso le stampe delle varie stesure e ho tolto le foto dal muro per metterle nel raccoglitore, mi è venuta la malinconia del lavoro concluso. Mi è sembrato di accantonare anche tutti quei bei momenti e già sentivo quella musichetta da happy end finale con tanto di fazzoletti lacrimosi sparsi sulla scrivania. 
Poi per fortuna è arrivato un messaggio a rimettermi in pista: "Comincia il secondo".
E quindi scusate eh, vado di fretta, c'ho da fare!
Cia'!

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...