giovedì 27 giugno 2019

Funambola

Qualche settimana fa sono uscita con Annamaria. Siamo andate in un paesino poco fuori Padova, un borgo medioevale che, in occasione di una festa, aveva aperto l'accesso al camminamento intorno alle mura. 
Nonostante fosse tutto in sicurezza, con scorrimano e barriere protettive, le mie vertigini si sono ribellate e, giunta quasi a metà del percorso, sono letteralmente crollata. 
Sudore freddo, nausa, fatica a respirare e le gambe che non mi reggevano. Un attacco di panico con tutti i crismi. Pensare di muovere un passo era fantascienza, e allora che si fa? Chiamare i Vigili del fuoco, in teoria, ma immaginatevi la scena mentre mi recuperano appesa, come una mongolfiera incagliata, alla smerlatura ghibellina di una cinta muraria. Volevo evitare...
Sono rimasta immobile, cercando di respirare, ripetendomi come un mantra "respira e reagisci" per un numero considerevole di volte, fino a quando con l'aiuto di Annamaria, sono riuscita ad arrivare alla torretta mezzana, dove presente un'uscita di sicurezza.
Poi mi parlano dei brividi del sabato sera.

In questi giorni mi capita spesso di ripetermi "respira e reagisci". Sarà che sono giorni per certi versi molto, molto complicati. Sarà perché le Ursule che, con la loro pesantezza come sabbie mobili e fanghiglia cercano di tirarmi giù, per un verso o per l'altro non mancano. Sarà...

Fatto sta che arrivo a sera e ci sono cose del mio sentire che non mi piacciono.
Si rischia di concentrarsi di più sulle frecce avvelenate che sulle mani tese, con il rischio che per combattere il veleno si diventa velenosi a propria volta, e non fa per me.
Fortunatamente ho amiche cariche di pazienza che quando mi vedono in difficoltà, vicine o distanti che siano, fanno come Annamaria quel sabato sera: aspettano che il respiro ritorni accettabile e poi "aggrappati a me, non guardare in basso, ti porto giù io".
Sono una persona fortunata.
Quindi ho deciso di riprendermi la leggerezza.
La mia, la solita.
Quella che resiste ai colpi esterni non perché ricorre al veleno ma perché ha gli anticorpi.
Ho deciso di godermi il bello dell'estate, che non è sicuramente questo caldo soffocante, ma la voglia di colore, le risate, le canzoni easy, i biglietti del treno, gli abbracci quelli stretti, e l'annegamento delle false paturnie in qualche vasca di mojito ben fatto.

Insomma, come direbbe il maestro Camilleri, ho deciso di afforntare la pesantezza, la cattiveria gratuita e altre pinzillacchere catafottendomene allegramente.

Oh là!





giovedì 20 giugno 2019

Il Lottatore - Guido Nasi

Quando ero piccola e tornavo al paesello di mamma, sua zia "Cìa" mi raccontava storie di bambini morti perché si dimenticavano di respirare. Io tornavo a casa terrorizzata, ripetevo mentalmente ad occhi sbarrati "devo respirare, devo respirare...". 
Fortunatamente qualcuno mi fece riflettere e mi passò. 
Diversi anni dopo, un sabato sera decisi di guardare un film horror. Era estate, ero a casa da sola, ma per farmi coraggio mi infilai la giacca di jeans di mio fratello e tenni la luce accesa accanto alla poltrona. 
Il protagonista del film veniva sepolto vivo. O meglio, lui credeva di essere sepolto, data la cassa di legno che lo avvolgeva, e il buio interrotto a fasi alterne da una piccola torcia che poteva accendere o spegnere, e il silenzio. In realtà questa sorta di bara era al centro del salone di una casa, ma lui non poteva saperlo. Quella notte andai a dormire pensando che ben poche cose siano più terribili dell'essere sepolto vivo. 
Questo libro mi ha smentita. 

Non è una lettura facile. Ma questo lo si evince leggendo la sinossi. Non è un libro facile perché ti sbatte un'altra volta in faccia, se mai ne avessimo bisogno, che la vita non è meritocratica. Che probabilmente il concetto di giustizia è sopravvalutato. Che spesso incazzarsi con il destino ha la stessa utilità di provare a fermare un treno con la sola forza del pensiero.
Guido, a 17 anni, subisce un'aggressione che gli stronca, letteralmente, la vita. Immaginate il vostro periodo più buio, ed è ancora nulla, rispetto a cosa deve aver provato al suo risveglio, quando poteva vedere e sentire le parole intorno a lui, e per il mondo circostante era ancora in coma. 
Guido e i suoi pensieri ti entrano sotto pelle, e nemmeno te ne accorgi, perché all'inizio quando parla della sua infanzia, è così schietto e sincero da non risultare nemmeno simpatico.
Non è certo uno di quei bambini simil pubblicità che ti conquistano con uno sguardo. Ti dà la stessa sensazione di essere uno di quei "marmocchi" esagitati capaci di urtare le vene più profonde delle nevrosi.
E questa è una delle cose che ti colpisce. Perché non gliene frega nulla di apparire "migliore" o diverso. Ha l'aspra schiettezza di chi delle apparenze non sa che farsene. Entra sotto pelle e graffia.
Ma nonostante la situazione che vive, lui direbbe che "muore" ma di fatto vive, in nessun capitolo si trova mai un accenno di quella vena melodrammatica che potrebbe far scaturire sentimenti tipo il compatimento, o la pietà. Rabbia, amore, energia, incazzatura quella forte. Il desiderio di morte, come liberazione.
Ma poi ancora l'ironia.
O per lo meno io l'ho sentita presente nei suoi consigli in pillole.
Alla fine di ogni capitolo dà un suggerimento su come affrontare o risolvere un problema pratico per chi assiste un paziente in coma o con gravi lesioni celebrali, e lo fa con lo stesso tono quasi di leggerezza di alcuni manuali pratici del fai da te.
Guido ti spezza.
Prende la tua realtà con tutti i problemi e li rende piccoli. Sposta il baricentro dell'ego fuori dal lettore e nello stesso tempo ben distante da se stesso. 
E se lo scopo di un libro è di trasportare il lettore in un'altra dimensione, regalargli una realtà diversa e stravolta dal quotidiano, ci sono ben pochi libri che possano eguagliare la potenza di queste pagine.


In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...