Era ancora
notte e il rumore del fuoribordo ricordò a Elia di essere sveglio. Con il
sapore del caffè ancora sul palato, slegò le cime dalle
bitte e spinse l’imbarcazione verso l’uscita dalla darsena con lente,
silenziose remate.
Le luci verde e rossa lo attendevano all’uscita della diga. Poste all’apice
delle due boe galleggianti erano quasi ferme: il mare era calmo.
Dopo pochi minuti, La Divina, così si chiamava l’imbarcazione,
procedeva senza troppa fretta lungo il canale tra le briccole, mantenendosi al
centro. Il motore borbottava in modo ritmico, come una vecchia caffettiera, ma
ancora andava. Era un gozzo di quasi sei metri in legno di teak. Il nonno di Elia, Giovanni Battista detto “Il Tita”, l’aveva varato nel
1895 dopo averlo costruito pezzo per pezzo con le sue stesse mani e curato
personalmente ogni singolo giorno, fino al momento di passarlo a suo figlio
Alvise, che aveva continuato la tradizione di famiglia per poi in anzianità,
cederlo ad Elia, suo primogenito.
Diversi anni prima, rischiò di perderlo durante una mareggiata che aveva
fatto molti danni anche all’interno del porto. Con l’aiuto di un vecchio amico
mastro, avevano dovuto sostituire diverse tavole e lavorare a lungo per riportarlo
all’antico splendore. Furono necessari tre mesi di darsena e un lavoro
artigianale vecchio stampo, ma alla fine La Divina
era tornata a solcare le onde con la prua verso est.
Tita ne sarebbe stato fiero,
pensò Elia, accendendosi la sigaretta tenendo il palmo della mano davanti al
viso a riparare la fiamma dall’aria.
Tita amava Eleonora Duse. Ecco il perché di quel nome.
Lo aveva sentito raccontare quella storia all’infinito durante la sua
infanzia, e quando prendeva il largo con il suo gozzo, risentiva la voce roca
di suo nonno raccontargli la sua storia.
Il Tita era uno dei gondolieri più conosciuti a Venezia. Amava l’opera e la
cantava remando tra i canali della città, mentre le coppie si stringevano e
scambiavano baci sotto il Ponte dei Sospiri. La sua voce scaldava l’aria anche
d’inverno e non era raro che chi camminava per le calli, si fermasse sui ponti per
ascoltare.
Visitare Venezia sulla sua gondola significava vivere due sogni: lasciarsi
incantare dalla sensualità di quella città d’acqua e sentirsi al centro di una
di quelle storie che si possono vivere solo sul palco di un teatro di lusso,
magari in uno degli spettacoli della Duse.
E Tita, la Divina,
l’amava davvero.
L’adorava come una dea scesa dall’Olimpo per illuminare, con la sua
grazia, la vita spenta dalla quotidianità. L’amava per quel suo modo di vivere
il palco, il dramma come se fosse la sua vita stessa, dimenticando
forse, di essere un’attrice ma mai di essere una donna.
“Eh, io l'ho incontrata la Divina. L’ho incontrata davvero. È salita sulla
mia gondola una notte. Eleonora Duse mi ha fatto dono del suo sguardo ed io sono
un privilegiato. Ho anche cantato per lei. Non me lo dimenticherò mai…”.
Quando iniziava, nonna Ester guardava il cielo e sospirava scuotendo la
testa. Si inventava qualcosa da fare in cucina, o una lavatrice da stendere,
per non essere costretta ad ascoltarlo di nuovo. Forse gelosa e troppo orgogliosa
per ammetterlo anche a se stessa. La gelosia è frivolezza,
diceva, gli uomini son nati cacciatori e noi donne siam fatte per
soffrire, ripeteva spesso tra sé e sé come i vespri della sera.
Elia invece lo ascoltava incantato ogni volta, sperando sempre in qualche
particolare in più, per potersi vantare con i suoi amici dell’incontro di suo
nonno con l'attrice famosa.
“Sarà stato quasi mezzanotte, sai Elia, e stavo per decidermi a tornare a
casa. Faceva un freddo cane, uno di quelli che il fiato fa nuvole dense. Mi
ero fermato in piazza a guardare la Basilica. È bella di notte sai, tutto il
suo oro risplende sotto la luna e tu puoi vederla da una vita, ma a certe cose
non ti abitui mai. Avevo appena finito di farmi una sigaretta… oh una
sigaretta… quanto vorrei fumarmene ancora una…” e poi tossiva di quella tosse
carica di catarro e lenta fine.
Riprendeva fiato e ricominciava: “dove ero rimasto? ah sì, la sigaretta…
avevo del buon trinciato e me la stavo gustando e ad un certo punto sento il
rumore dei tacchi veloci sulla pietra, mi volto e vedo questa donna elegantissima
che quasi corre con la testa bassa, stringendosi nella pelliccia, con la borsa stretta
al petto. E dietro di lei un uomo.”
Tita socchiudeva gli occhi e prendeva fiato.
Seduto sulla poltrona con la coperta sulle gambe e la mano destra un po’
sollevata come se ancora tenesse la sigaretta accesa.
“Eleonora, Eleonora la prego si fermi”.
Eleonora si bloccò di colpo e si voltò verso il suo inseguitore. Le spalle le
si muovevano veloci su e giù, ansimava per la corsa.
“Sono io che prego lei Gabriele, mi lasci andare”.
“Lo sa che non posso, non potrei mai perdonarmelo... lo sa anche lei, non è
un caso… noi due qui… questa notte. Non è un caso.”
“No, la prego, non lo dica…”
Eleonora si voltò di nuovo guardandosi intorno, come cercasse un appiglio,
qualcosa a cui aggrapparsi per non perdersi in quegli occhi che parevano saper
scrutarle l’anima.
Tita osservava la scena indeciso se intervenire o farsi gli affari suoi. Lei
lo raggiunse con pochi passi: “È in servizio? Può farmi salire?”
Fu un attimo. Tita la riconobbe e colto alla sprovvista, non riuscì a
risponderle. Restò a fissarla con la sigaretta che gli si consumava tra le
dita.
“Allora? Mi fa salire?”
Il giovane uomo li raggiunse “Eleonora, ti prego”.
Eleonora guardava Tita fermo davanti a lei. Erano tanto vicini che lui poté
notare gli occhi di lei riempirsi di lacrime e poi lentamente chiudersi, lasciandole
scivolare sul viso. Furono quelle a farlo reagire.
“Certo che la faccio salire signora, prego. Ma questo signore la importuna?”
Gettò la sigaretta a terra.
Lei mosse solo la testa accennando un no, e si girò su se stessa dandogli
le spalle.
“Eleonora…” il giovane non si arrese.
“Solo per come pronuncia il mio nome, solo per il suono che la sua voce
dona alla mia identità, io sento che potrei perdere la ragione. E lei,
Gabriele, è così giovane. Io non posso permettermi di…”
Il giovane le si avvicinò muovendosi lentamente, incurante della presenza
del gondoliere e, accarezzandole il mento con un dito, le sollevò il viso di
bambina e la baciò sulle labbra.
Un bacio così puro e passionale nello stesso tempo, che il fiato di Tita si
fermò in gola.
Un istante così dilatato da sembrare eterno, Venezia parve rimanere
silenziosamente immobile.
“Sarebbe così gentile da farci salire sulla sua gondola, signore?”
Fu il giovane a spezzare l’incantesimo.
“Prego”.
Tita li aiutò a salire, quando l’attrice si appoggiò alla sua mano ancora
tremava, e lui sentì un brivido inimitabile, se chiudeva gli occhi poteva
riconoscerlo distintamente.
Navigarono per i canali quieti, solo lo sciabordio del remo e la voce del
gondoliere che cantava in un sussurro Una furtiva lagrima del
Donizetti.
In uno di quei giorni, mentre si raccontava al suo nipotino, Tita abbandonò
la sua vita così, sussurrando:
Di più non chiedo, non chiedo.
Sì, può morir! Sì, può morir d'amor.
Sognando la Divina e colui che sarebbe diventato il Vate, finalmente
abbracciati.
Elia prese il termos e bevve un altro sorso di caffè caldo.
Aveva gettato le reti il pomeriggio prima, lasciando una boa di polistirolo
a segnalarle e ora tornava a prendere il pescato.
C’era da festeggiare in casa Boscolo, si organizzava una gran cena:
era nato il suo primo nipote, l’avrebbero chiamato Giovanni Battista.
Già si immaginava la prima volta che l’avrebbe portato il piccolo in mare
con La Divina, raccontandogli quella
storia che apparteneva alla sua famiglia da sempre.
Il primo raggio di sole
fece capolino oltre l’orizzonte.