mercoledì 31 gennaio 2018

Maggio arriva sempre...


Maggio ‘riva sempre.
Anche quando ghe ze la guerra.
Anche quando l’aria non la sa de rose ma de polvere da sparo.
Maggio ‘riva sempre.

E Ilario nol spetta altro. A maggio inizia il rosario, al Tempio della Pace don Livio fa sonare le campane dopo cena. E la Maria parte con so mama e la coroncina in mano, oci bassi.
Bella la Maria, col velo bianco sui capelli e diciassette anni ‘pena fatti. La se senta sempre al terzo banco, sulla sinistra, el ghe mostra el profilo più bello, a lu che serve Messa.
Bella la Maria, la se fa le trecce prima de ‘ndare in letto per farsi li capelli mossi.
E Ilario la sposerà, quando la guerra sarà finia e non manca tanto. Radio Londra l’ha ditto, siamo agli sgoccioli. Già qualche crucco ze ndà via.
Lu non li sopporta i crucchi. Hanno picchiato anche la Pierina, qualche giorno fa.

Pierina la ze la fidanzata di suo fratello Toni, l’hanno presa a sciafe sotto il campanile de Pegolotte, che no la voleva dire dove se scondeva i tosi del paese. I zera tuti sconti in tel campanile, tuti sotto a campana. E se non zera par il prete magari i la copava pure. Povera la Pierina.
Tra un mese suo fratello Toni la sposa, ze quasi tuto pronto, anche se non ze che ghe fosse tanto da preparare alla fine. I se sposa alle sei de la matina de lunedì. Che la Pierina la ze incinta. E il prete dize che no a ze degna de sposarse de domenica. E niente vestito bianco. Tutta colpa del Toni e quell’ombra de vin che beve sempre quando lascia la ferrovia a fine turno.

Ma lui no, Ilario la vuol sposare di domenica all’ora di pranzo la Maria, con il sole di maggio a bagnarle il viso e i capelli biondi morbidi sotto il velo bianco. El ga trovato lavoro da poco, in ferrovia come el Toni, a spalar carbone nella caldaia della locomotiva. E mette via i soldi par torghe una casa che sia bella, degna di quei capelli biondi e quei oci belli. No la ga ancora basà la Maria, chissà come la ze basarla, quelle labbra che pare petali. Ilario ghe pensa sempre e spala carbon più in fretta.

Quando la guerra sarà finia le darà un baso sensa fine.

E Radio Londra l’ha detto anca oggi, manca poco… forse questione di giorni… ed è contento Ilario che el gà vent’anni e poe ancora farsi tutta la vita con la Maria senza polvere da sparo tacà ai vestiti. Non come il Piero che l’è partito da due anni e nessuno sa più che fine el ga fatto. Povero il Piero. Sua madre veste già a lutto da sie mesi a ‘sta parte.

Oggi ze el sete de maggio, ghe ze un’aria diversa su Padova, tuti i pare drio spetare qualcosa de nuovo. E il sole pare più allegro. Ilario speta solo de arrivare a sera, lavarse il cabon de dosso e metere su la camisa bianca, ‘ndare a servire Messa e vardar la Maria, che prega, co i oci bassi e so mama seduta tacà de ela.
E spala il carbon nela bocca della locomotiva, nol sente gnanca pì el odore del sudore, solo quello del carbon che brusa.
La pelle lucida e il sorriso perso nei denti bianchi. Come el velo de la Maria. Pensa a basarla e sorride ai so vent’anni.

I so amici dize che nol gà sofferto. Pare che no se sia nemmeno accorto, che ze sta un attimo. La granata in mezo al carbon no la se poteva vedere. Ilario l’era drio lavorare par comprare la casa e sposarse in un giorno d'istà.
L’era primavera, l’era innamorà come un bocia.

No podeva vederla.
Nero il cabon, nera la granata. Nera ‘sta sporca guerra.

La locomotiva la ze scioppà in un attimo, el botto lo se gà sentio in tutta la città.
Anche la Maria, lo gà sentio, che zera drio pulire i banchi del Tempio della Pace come ogni mattina.

Chissà che la sia finia davvero sta sporca guerra, dize la zente che lo conosceva…
Chissà che la sia finia davvero, e intanto i se versa un goto de vin.

domenica 28 gennaio 2018

Sottotraccia - Massimo Cassani


Doverosa premessa: questa non è una recensione, non nel senso più tecnico della definizione. Per un motivo molto semplice: non sono un critico letterario. Sono solo una persona che legge, non quanto vorrebbe, a cui piace discorrere di libri, sopratutto quelli che le sono piaciuti. Se leggo libri che non mi conquistano glisso, per due motivi altrettanto semplici: la bellezza sta negli occhi di chi legge. Banale forse, ma tant'è. Non detengo certo la verità universale. Inoltre,  un libro porta con sé una storia sotterranea di energie investite, tempo rubato alla famiglia, agli hobby o al cazzeggio. Quindi merita rispetto, a prescindere. 

Quello che vi apprestate a leggere sono impressioni, sensazioni, che il libro mi suscita. Per le recensioni più tecniche vi rimando agli esperti del ramo. 


Che penso di "Sottotraccia"? Bello. Bello. Bello. 
Ma partiamo dall'inizio, le cose sono andate all'incirca così: Chiara la Saggia viene a cena a casa mia. E invece di portare la classica bottiglia di vino, arriva con un pacchetto contenente questo libro, e mi dice "Massimo è un mio amico, e tu LO DEVI LEGGERE". Chiara è così. Il maiuscolo le esce non solo in certi punti di certe chattate, ma anche quando parla, significa che in questa cosa ci crede davvero. 
E io, "Un tuo amico? carino! Single?" "No, sposatissimo" "Ecco, sempre i migliori che se ne vanno". Pure io sono così. Bischera fino alla fine. 
Scorro alla quarta copertina. "Romanzo giallo alla milanese". E io penso, ahia. Io non ho un buon rapporto con Milano, ho provato a fare amicizia, andarle incontro, capirla. Ma non ci amiamo. È ufficiale. Ogni volta che cammino per le sue vie mi sento fuori posto come fossi dentro un negozio di Gucci. Basta questo pensiero a farmi desistere? No, perché se Chiara ha detto così, 'sta cosa sà da fare.
Ed è così, che in un venerdì notte, dopo una bella cena con una grande amica, faccio la conoscenza del commissario Sandro Micuzzi, e scopro che in comune abbiamo l'età, i capelli arruffati, lo scazzo semi-cronico. Che non è poco, perché di pagina in pagina se lui sbuffa tu sbuffi, se lui si incazza ti viene da dargli una pacca sulle spalle e dirgli "come ti capisco". Specie quando riceve le telefonate dell'ex moglie, Margherita, una che te la consiglio. Ma al di là del gossip, il commissario mi ha mostrato una Milano dalle tinte poco glamour e molto noir, facendomi sentire quasi a casa. La trama è di quelle che ti si intreccia addosso, come la pianticella nata dal fagiolo magico, che ti prende dalla caviglia, ti avvolge e solleva verso una dimensione diversa accendendo luci su angoli e punti di vista di versi di tante storie che sono diramazioni della stessa storia. 
Abbastanza complessa da tenerti sempre un passo indietro e farti capire che senza il commissario non vai da nessuna parte. Il che significa stupirti ad ogni nuovo indizio, ma senza mai farti distrarre o arrendere. L'equilibrio perfetto dei chiaro scuri, e del ritmo narrativo. Una vita che non mi divertivo così, leggendo. 
E poi ad un certo punto incontri lei: Rosaria Della Vedova, una poliziotta che ha un carattere e sa molto bene come usarlo. Poche righe ed eravamo già amiche. Insomma. La penna di Cassani dipinge diversi personaggi, dettagli nitidi e precisi come in quadro di Rubens. Ti coinvolge nella trama al punto di non riuscire a farti mettere giù il libro, finisce che te lo porti ovunque, anche nella sala d'attesa dell'ospedale, pur di vedere come va a finire.  
E quando lo finisci? 
Appena arrivi a casa, ordini Pioggia Battente, che non puoi mica fermarti qui. 

domenica 21 gennaio 2018

Torino Obiettivo Finale - Rocco Ballacchino

Doverosa premessa: questa non è una recensione, non nel senso più tecnico della definizione. Per un motivo molto semplice: non sono un critico letterario. Sono solo una persona che legge, non quanto vorrebbe, a cui piace discorrere di libri, sopratutto quelli che le sono piaciuti. Se leggo libri che non mi conquistano glisso, per due motivi altrettanto semplici: la bellezza sta negli occhi di chi legge. Banale forse, ma tant'è. Non detengo certo la verità universale. Inoltre,  un libro porta con sé una storia sotterranea di energie investite, tempo rubato alla famiglia, agli hobby o al cazzeggio. Quindi merita rispetto, a prescindere. 
Quello che vi apprestate a leggere sono impressioni, sensazioni, che il libro mi suscita. Per le recensioni più tecniche vi rimando agli esperti del ramo. 

Bon! 
Ho comprato questo libro al Salone del libro di Torino. Perché? Ma l'avete vista la copertina? Chi mi conosce sa che in un colpo solo ci sono due simboli cittadini che adoro, la Mole e la Tour Eiffel. Insieme, una complementare all'altra. L'ho vista è ho pensato solo: "mio". 
Il commissario Sergio Crema, spinto dal critico cinematografico Mario Bernardini, si trova a dover affrontare l'oggetto del suo desiderio, il magistrato Giulia Bonamico, per riaprire un'indagine per omicidio gestita da dei suoi colleghi, forse con eccessiva superficialità. Un fatto di cronaca cittadina, che si rivela essere la punta di un iceberg di un intrigo più intrigato del previsto, e le indagini apriranno un vaso di Pandora del tutto imprevisto.
Sullo sfondo il cuore di Parigi spezzato dagli attentati del 2015, in primo piano il timore e il rischio che anche Torino possa diventare vittima a sua volta. 
Ma Crema e Bernardini, i due personaggi creati dalla penna di Rocco Ballacchino, sono vecchie conoscenze. Dello stesso autore avevo già letto Scena del Crimine (in copertina c'era Piazza Vittorio!). Iniziare la lettura è come ritrovare due conoscenti con cui passi volentieri del tempo, che si siedono al tavolino del bar accanto a te, e ti raccontano "quella volta che...", senza tralasciare suspance e colpi di scena. Ma anche quei momenti di ironia e umorismo che stemperano la tensione. Gli ingredienti ci sono tutti: il burbero: Mario Bernardini, con le sue battutine in punta di bisturi (che il fioretto è troppo delicato), anche se in questo capito lo troviamo sottotono, ma sta combattendo una battaglia e intende farlo a modo suo.
Sergio Crema, acuto commissario una persona "normale" che, diciamocelo, di normalità c'è bisogno. Sempre in lotta con il suo peso, con i suoi dubbi, e le fantasie per l'affascinante magistrato Bonamico. La squadra di polizia che l'appoggia e lo segue non come un capo ma come un leader, con Marco Quadrini in testa. Ispettore e grande amico di Crema, capace di fargli da grillo parlante quando serve. 
Il commissario si fa accompagnare dal lettore nell'indagine, ma non gli permette mai di superarlo, perché nel momento in cui ti pare di avere intuito qualcosa, tac! è capace di smentirti e riportari un passo indietro. E questa è una cosa per me fondamentale in un noir. Più di una volta mi è capitato di scoprire dettagli quattro pagine prima dell'investigatore e dal nervoso l'avrei spedito a dirigere il traffico. 
Il libro si fa leggere bene, scorre veloce e i suoi protagnisti sono capaci di tenerti compagnia un pomeriggio intero senza mai annoiarti. Proprio come i buoni amici. E quando il racconto finisce, li saluti con un po' di rammarico e nostalgia, sperando di poterli incontrare quanto prima. 
E bravo Rocco!

mercoledì 17 gennaio 2018

La Divina



Era ancora notte e il rumore del fuoribordo ricordò a Elia di essere sveglio. Con il sapore del caffè ancora sul palato, slegò le cime dalle bitte e spinse l’imbarcazione verso l’uscita dalla darsena con lente, silenziose remate
Le luci verde e rossa lo attendevano all’uscita della diga. Poste all’apice delle due boe galleggianti erano quasi ferme: il mare era calmo.
Dopo pochi minuti, La Divina, così si chiamava l’imbarcazione, procedeva senza troppa fretta lungo il canale tra le briccole, mantenendosi al centro. Il motore borbottava in modo ritmico, come una vecchia caffettiera, ma ancora andava. Era un gozzo di quasi sei metri in legno di teak. Il nonno di Elia, Giovanni Battista detto “Il Tita”, l’aveva varato nel 1895 dopo averlo costruito pezzo per pezzo con le sue stesse mani e curato personalmente ogni singolo giorno, fino al momento di passarlo a suo figlio Alvise, che aveva continuato la tradizione di famiglia per poi in anzianità, cederlo ad Elia, suo primogenito.
Diversi anni prima, rischiò di perderlo durante una mareggiata che aveva fatto molti danni anche all’interno del porto. Con l’aiuto di un vecchio amico mastro, avevano dovuto sostituire diverse tavole e lavorare a lungo per riportarlo all’antico splendore. Furono necessari tre mesi di darsena e un lavoro artigianale vecchio stampo, ma alla fine La Divina era tornata a solcare le onde con la prua verso est.
Tita ne sarebbe stato fiero, pensò Elia, accendendosi la sigaretta tenendo il palmo della mano davanti al viso a riparare la fiamma dall’aria.
Tita amava Eleonora Duse. Ecco il perché di quel nome.
Lo aveva sentito raccontare quella storia all’infinito durante la sua infanzia, e quando prendeva il largo con il suo gozzo, risentiva la voce roca di suo nonno raccontargli la sua storia.
Il Tita era uno dei gondolieri più conosciuti a Venezia. Amava l’opera e la cantava remando tra i canali della città, mentre le coppie si stringevano e scambiavano baci sotto il Ponte dei Sospiri. La sua voce scaldava l’aria anche d’inverno e non era raro che chi camminava per le calli, si fermasse sui ponti per ascoltare.
Visitare Venezia sulla sua gondola significava vivere due sogni: lasciarsi incantare dalla sensualità di quella città d’acqua e sentirsi al centro di una di quelle storie che si possono vivere solo sul palco di un teatro di lusso, magari in uno degli spettacoli della Duse.
E Tita, la Divina, l’amava davvero.
L’adorava come una dea scesa dall’Olimpo per illuminare, con la sua grazia, la vita spenta dalla quotidianità. L’amava per quel suo modo di vivere il palco, il dramma come se fosse la sua vita stessa, dimenticando forse, di essere un’attrice ma mai di essere una donna.
“Eh, io l'ho incontrata la Divina. L’ho incontrata davvero. È salita sulla mia gondola una notte. Eleonora Duse mi ha fatto dono del suo sguardo ed io sono un privilegiato. Ho anche cantato per lei. Non me lo dimenticherò mai…”.
Quando iniziava, nonna Ester guardava il cielo e sospirava scuotendo la testa. Si inventava qualcosa da fare in cucina, o una lavatrice da stendere, per non essere costretta ad ascoltarlo di nuovo. Forse gelosa e troppo orgogliosa per ammetterlo anche a se stessa. La gelosia è frivolezza, diceva, gli uomini son nati cacciatori e noi donne siam fatte per soffrire, ripeteva spesso tra sé e sé come i vespri della sera.
Elia invece lo ascoltava incantato ogni volta, sperando sempre in qualche particolare in più, per potersi vantare con i suoi amici dell’incontro di suo nonno con l'attrice famosa.  
“Sarà stato quasi mezzanotte, sai Elia, e stavo per decidermi a tornare a casa. Faceva un freddo cane, uno di quelli che il fiato fa nuvole dense. Mi ero fermato in piazza a guardare la Basilica. È bella di notte sai, tutto il suo oro risplende sotto la luna e tu puoi vederla da una vita, ma a certe cose non ti abitui mai. Avevo appena finito di farmi una sigaretta… oh una sigaretta… quanto vorrei fumarmene ancora una…” e poi tossiva di quella tosse carica di catarro e lenta fine.
Riprendeva fiato e ricominciava: “dove ero rimasto? ah sì, la sigaretta… avevo del buon trinciato e me la stavo gustando e ad un certo punto sento il rumore dei tacchi veloci sulla pietra, mi volto e vedo questa donna elegantissima che quasi corre con la testa bassa, stringendosi nella pelliccia, con la borsa stretta al petto. E dietro di lei un uomo.”
Tita socchiudeva gli occhi e prendeva fiato.
Seduto sulla poltrona con la coperta sulle gambe e la mano destra un po’ sollevata come se ancora tenesse la sigaretta accesa.

“Eleonora, Eleonora la prego si fermi”.
Eleonora si bloccò di colpo e si voltò verso il suo inseguitore. Le spalle le si muovevano veloci su e giù, ansimava per la corsa.
“Sono io che prego lei Gabriele, mi lasci andare”.
“Lo sa che non posso, non potrei mai perdonarmelo... lo sa anche lei, non è un caso… noi due qui… questa notte. Non è un caso.”
“No, la prego, non lo dica…”
Eleonora si voltò di nuovo guardandosi intorno, come cercasse un appiglio, qualcosa a cui aggrapparsi per non perdersi in quegli occhi che parevano saper scrutarle l’anima.
Tita osservava la scena indeciso se intervenire o farsi gli affari suoi. Lei lo raggiunse con pochi passi: “È in servizio? Può farmi salire?”
Fu un attimo. Tita la riconobbe e colto alla sprovvista, non riuscì a risponderle. Restò a fissarla con la sigaretta che gli si consumava tra le dita.  
“Allora? Mi fa salire?”
Il giovane uomo li raggiunse “Eleonora, ti prego”. 
Eleonora guardava Tita fermo davanti a lei. Erano tanto vicini che lui poté notare gli occhi di lei riempirsi di lacrime e poi lentamente chiudersi, lasciandole scivolare sul viso. Furono quelle a farlo reagire.
“Certo che la faccio salire signora, prego. Ma questo signore la importuna?”
Gettò la sigaretta a terra.
Lei mosse solo la testa accennando un no, e si girò su se stessa dandogli le spalle.
“Eleonora…” il giovane non si arrese.
“Solo per come pronuncia il mio nome, solo per il suono che la sua voce dona alla mia identità, io sento che potrei perdere la ragione. E lei, Gabriele, è così giovane. Io non posso permettermi di…”
Il giovane le si avvicinò muovendosi lentamente, incurante della presenza del gondoliere e, accarezzandole il mento con un dito, le sollevò il viso di bambina e la baciò sulle labbra.
Un bacio così puro e passionale nello stesso tempo, che il fiato di Tita si fermò in gola.
Un istante così dilatato da sembrare eterno, Venezia parve rimanere silenziosamente immobile.
“Sarebbe così gentile da farci salire sulla sua gondola, signore?”
Fu il giovane a spezzare l’incantesimo.
“Prego”.
Tita li aiutò a salire, quando l’attrice si appoggiò alla sua mano ancora tremava, e lui sentì un brivido inimitabile, se chiudeva gli occhi poteva riconoscerlo distintamente.
Navigarono per i canali quieti, solo lo sciabordio del remo e la voce del gondoliere che cantava in un sussurro Una furtiva lagrima del Donizetti.

In uno di quei giorni, mentre si raccontava al suo nipotino, Tita abbandonò la sua vita così, sussurrando:
Di più non chiedo, non chiedo.
Sì, può morir! Sì, può morir d'amor.
Sognando la Divina e colui che sarebbe diventato il Vate, finalmente abbracciati.

Elia prese il termos e bevve un altro sorso di caffè caldo. 
Aveva gettato le reti il pomeriggio prima, lasciando una boa di polistirolo a segnalarle e ora tornava a prendere il pescato.
C’era da festeggiare in casa Boscolo, si organizzava una gran cena: era nato il suo primo nipote, l’avrebbero chiamato Giovanni Battista.
Già si immaginava la prima volta che l’avrebbe portato il piccolo in mare con La Divina, raccontandogli quella storia che apparteneva alla sua famiglia da sempre.
Il primo raggio di sole fece capolino oltre l’orizzonte.

mercoledì 10 gennaio 2018

"Vita di un'aspirante narratrice #2: tra sogno e realtà, sopratutto sogno.

Stasera Alberto Angela con il programma Meraviglie, ci porta nelle Langhe e in particolare, si soffermerà al Castello di Grinzane Cavour.
Già me lo immagino, mentre, passeggiando ai piedi dei muri imponenti e, gesticolando come solo lui sa fare mentre un drone volteggia leggiadro sulla sua testa, dice: "Siamo al Castello di Grinzane Cavour, poco distante da Alba. Qui, tra i sentieri e i vignetti, è passata la Storia. Non solo, su questo stesso sentiero dove mi trovo, ha camminato la Sacrato. Questi paesaggi hanno letteralmente incantato la scrittrice che ha voluto inserine i colori e i profumi, nel suo ultimo romanzo. 
Un patrimonio dell'Umanità, e un prezioso cameo della letteratura italiana, finalmente insieme".
E son soddisfazioni. 
#toglietemilacool

venerdì 5 gennaio 2018

“Van Gogh tra il grano e il cielo” - Vicenza

"Impresa ardua riuscire a deludere il pubblico con una mostra su Van Gogh" sospira Patrizia perplessa al telefono mentre, fuori dalla bellissima Basilica Palladiana, cammino in compagnia delle mie amiche, cercando un posto dove mangiare qualcosa al caldo. Del resto non abbiamo ancora smaltito il freddo accumulato in un'ora e mezzo di coda fatta all'ingresso, che nemmeno ci aveva infastidite, del resto si pensava ne varrà la pena.  

La mostra si sviluppa in sale diverse, ognuna per un periodo significativo della vita del Pittore, a partire dall'inizio della sua ispirazione, fino alla morte. L'onere di spiegare cosa stai per vedere è dei due pannelli distinti, presenti in ogni sala, uno accanto all'altro, uno con una lettera di Vincent al fratello Theo, e una spiegazione estratta direttamente dal libro (non catalogo, libro mi raccomando, che ci tiene) scritto dal curatore della mostra stesso, Marco Goldin. 
Entrambi i testi, non certo sintetici, sono posti all'ingresso della sala, proprio accanto alla porta. Quindi tutte le 1003 persone entrate: chi con l'audio guida, chi con la guida turistica, chi con niente di tutto ciò, si trovano ammassati nello stesso punto, cercando di leggere questo muro di parole illuminato da un faro posto, nemmeno troppo alto, sopra le nostre teste. Con il risultato che se davanti al fascio luminoso ci capito io con il mio essere diversamente alta, ci sono buone speranze di riuscire a completare la lettura. Se alle spalle avete un uomo di un metro e ottanta, affari vostri. In ogni caso, leggere tutto è quasi impossibile, perché dopo pochi minuti verrete presi a gomitate alla milza al fine di spostarvi.
Centoventinove opere, per lo più disegni, dai primi studi, fino ai dipinti, posti quasi tutti nella penultima sala. Dove, grazie ai nuovi ingressi, le persone ammassate sono ormai il doppio. E per un attimo mi sono anche chiesta in caso di emergenza dove fossero le vie di fuga, non visibili, né per il buio né per l'eccessiva calca presente. 
Riesco a farmi largo per ammirare Pioggia a Auvers. Ed è un'emozione unica, quasi commuovente. Peccato per la sciura che mi affianca e, armata di block notes e penna, si piazza con il naso a 5 cm dalla tela per vederla meglio, signora mia.
Mi chiedo: ha senso depositare le borse nel guardaroba quando chicchessia può avvicinarsi a un quadro quasi toccandolo, senza che nessun sistema di allarme suoni? e se questa tizia avesse voluto lasciare un segno indelebile del suo passaggio? Certo, scappare sarebbe stato impossibile, ma ormai il danno sarebbe stato inestimabile.
Inoltre: perché invece del quadro devo passare il quarto d'ora successivo ad ammirare mech e forfora della sciura, sperando che decida quanto prima di levarsi dalle palle? Nessun paletto o nastro allontanatore, del tutto menefreghisti i ragazzi dello staff che, presumo, dovrebbero controllare qualcosa di diverso dalla punta delle loro scarpe.
A metà percorso una chicca che non ti aspetti: un plastico enorme della clinica di Saint-Paul-de-Mausole. Ci siamo guardate intorno aspettandoci di veder sbucare Bruno Vespa con un pennello di Vincent nella mano destra e l'orecchio mozzato nella sinistra e i collegamento aperto con la Protezione Civile.
Quale fosse l'utilità di questa cosa, ancora non ci è dato di sapere.

Siamo alla fine. Di tornare indietro e gustarsi nuovamente qualcosa che magari non si è apprezzato è fuori discussione dato che i visitatori sono in continuo aumento.  Manca l'aria, e qualcuno fa sentire il proprio disappunto ad alta voce. Cerco di raggiungere l'ultima sala sperando di trovare il "Campo di grano con volo di corvi", che però non c'è, in compenso l'ultima sala è tutta dedicata all'autocelebrazione dell'onnipresente curatore Goldin che oltre dei pannelli, del libro pseudocatalogo, dell'audioguida e forse pure del plastico (?) è autore del monologo teatrale che ha ispirato i dipinti di Matteo Massagrande, che chiudono la mostra che, arrivata a questo punto mi sembra incompleta. Manca l'ultima tela, quella dipinta prima di uccidersi. Quella in cui, Vincent disegna quello che è sa essere il proprio destino. 

Sveglio delicatamente una delle ragazze dello staff e le chiedo: "scusi, ma il Campo di grano con i corvi, non c'è?" lei mi guarda come se le avessi chiesto la quarta regola di Newton e con sguardo bovino (cit.) di rimando: "Ehnnnn?"
Io: "Campo giallo, cielo blu, corvi neri, ha presente?"
Lei "ah... no... non credo... ma ne abbiamo altri...". (A stento non chiede: "che taglia le serve?")
La saluto e la mando a cercare pokemon.
Comprendo che il Van Gogh Museum di Amsterdam possa non averlo prestato per l'occasione, ma anche una semplice proiezione avrebbe dato la chiusa corretta a questo percorso. 
Ne ho abbastanza ed esco. Ricordo con nostalgia a una vecchia videocassetta acquistata ai tempi dell'università: dentro la pittura di Van Gogh, curata direttamente da Vittorio Sgarbi, alcuni passaggi di una critica assolutamente sublime, sono ancora ben impressi nella memoria.

Insomma, un'ottima occasione mancata. Perché le tele andrebbero protette con cura, perché se non hai a disposizione uno spazio ampio quanto il Louvre, non puoi far entrare un numero sconsiderato di persone contemporaneamente, perché si creano calche simili ai caselli autostradali il giorno di ferragosto. E poi devi dare una direzione logica in cui muoversi, e dei tempi precisi in cui soffermarsi e poi scorrere. Perché non si può curare una mostra mettendo il proprio ego davanti alla genialità indiscussa di un Pittore che emoziona solo evocandolo.

Fortunatamente di Vincent Van Gogh non si finirà mai di parlare, di questa mostra e del suo curatore, spero, ci si dimenticherà in fretta. 

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...