venerdì 29 marzo 2019

Famiglia

La mia famiglia, negli ultimi 33 anni, non è certo quel che si dice "tradizionale". È composta da mia madre, mio fratello, io e lo spirito di papà. Certo, non è come in quei film che si vedono spesso sotto Natale facendomi venire pure un filo di gastrite, dove il genitore venuto a mancare si palesa e risolve tutti quei nodi lasciati in sospeso a causa della sua dipartita. È più una presenza costante che avverti nei valori, nella costante idea di fare ciò che è giusto, non più facile, giusto. Nell'educazione e nel rispetto del prossimo. Nell'immaginare la sua espressione sconsolata ogni volta che ne combino una delle mie, o di rassegnazione quando inizio a disegnare l'ennesimo tatuaggio. 
Famiglia per me è mia cognata, e i miei nipotoni. Perché quanto ti si sposa il fratellone acquisisci una sorella, e poi non avendo figli miei, bontà loro, i miei nipoti si dovranno accollare il peso della zia tatuata e scassamaroni quando avrò bisogno del bicchiere per la dentiera. 
Famiglia sono le due gatte che ho accompagnato da quando mi stavano in una mano fino al ponte. I miei bimbi sono i tre teppisti che da un anno e mezzo rendono la mia vita casalinga un delirio di disastri e coccole, ma hanno quel modo di guardarmi come se fossi la mamma più bella del mondo. Anche quando mi sveglio al mattino più arruffata e stropicciata che mai, o ritorno a casa divelta con nessuna voglia di parlare, e vedo nel divano il mio solo consolatore. 
L'Ing. è la mia famiglia. Lui che da 8 anni mi sopporta e supporta, il solo capace di farmi parlare senza abbaiare prima del caffelatte. Ci sentiamo una media di tre volte al giorno e abbiamo sempre qualcosa da raccontarci, fosse anche una scemata. Non ricordo però una decisione importante che non sia stata discussa con lui. Il titolo del libro, per dirne una, la più ludica. 
Famiglia per me sono i pezzi di cuore che ho disseminati in distanze variabili. 
L'amico che sta dall'altra parte del mondo, a cui spedire il té all'arancia e cannella nei tempi più freddi. Le amiche che mi riempiono cuore e telefono. Chi mi consola, chi mi trascina a forza fuori di casa, chi mi striglia quando ne ho bisogno, chi corregge i miei refusi e mi incita a non mollare; chi ho ritrovato da poco e ha una vita sfuggente, e l'amico che sta lottando con un drago gigante e, seppur ferito, non ha il tempo di sanguinare ma non cede di un passo. 
Perché per me famiglia significa abbraccio, sostegno, strilli che anticipano solo la pace. Famiglia è chi gioisce per te e i tuoi traguardi, chi non smette di incoraggiarti, chi ti dice "non sono d'accordo ma se ci credi veramente allora hai il mio sostegno". Famiglia è chi non ti lascia solo anche quando sei tu a chiederlo, è accettare il paletto che ti viene posto, è chi se ne frega delle definizioni imposte, dei chilometri di distanza, dell'orario più giusto per telefonare, dei precocetti, delle impalcature che reggono le apparenze e presunte tradizioni. 
Famiglia è chi è capace di stringersi anche senza toccarsi.

mercoledì 13 marzo 2019

Dovrei imparare...

Dovrei imparare a fare ordine. 
Togliere il superfluo, o il presunto tale, e decidermi a lasciare spazio anche al vuoto. Perché evidentemente vuoto ha da restare.
Dovrei imparare a catalogare, piegare bene, trovare i giusti cassetti, le giuste gradazioni di colore e forma perché al primo colpo d'occhio l'essenza sia armonica.
Dovrei imparare ad essere metodica, a togliere la polvere, che si sa, quando si deposita lo fa uniformemente e nasconde le linee di confine tra un mobile e l'altro.  E non va bene. 
Dovrei imparare la filosofia che ogni cosa ha il suo posto e c'è un posto specifico per ogni cosa. Che è buona cosa restare seduti composti, la schiena andrebbe dritta e ci si muove con calma e gesti aggraziati.  
A correre si suda, a saltare ci si fa male, a spogliarsi si resta al freddo. 
Che i baci sono umidi, che gli abbracci sgualciscono e disarmano, i sogni invadono. 
E non va bene. 
Dovrei imparare i tempi del silenzio, della riflessione, delle parole calibrate e delle mezze misure, il famoso: "vedo non vedo, mistero austero".  E tralascio in toto il capitolo sulle parolacce, va.
Dovrei imparare a comportarmi bene, come si confà e si addice ad una signora.
Lo so che dovrei, che sarebbe saggio e pure pragmatico. Che finalmente smetterei di cercare le cose che non trovo,  distrarmi un poco, investire tutto, credere e disilludermi, sudare e raffreddarmi, cadere e ricucirmi, ridere e piangere a ripetizione, che non è vero che piangere fa gli occhi belli, a me si gonfiano le palpebre come quelle delle rane, e non è un bel vedere.
E lo so che ordine e rassegnazione non fanno nemmeno rima, ma proprio ora, mentre guardo fuori dalla finestra e mi accorgo che piove e non è rimasto nulla del cielo terso e limpido a cui sorridevo ieri, mai come ora quelle due parole le sento troppo vicine.
E non mi piace per nulla...  

martedì 5 marzo 2019

Avanti marsch!

Quei giorni che quando passano ti lasciano disorientata. 
Ti basta un solo messaggio alle volte: "è arrivata una raccomandata, c'è da spostare papà", a farti perdere l'equilibrio e cedere le ginocchia. 
Un messaggio nemmeno tanto scioccante, si sa che funziona così: a trent'anni dalla morte si estrae il feretro dal loculo, si controllano i resti e si trasloca nell'ossario.
È la prassi. 
Però basta quel "c'è da spostare" per evocare tutte le immagini correlate al momento in cui quel feretro ha trovato posto la prima volta. 
Sono scoppiata a piangere come una deficiente. 
Tre minuti, perché poi coordino il respiro, rimetto le briglie a dolore e immagini, le ricaccio giù da qualche parte nello stomaco e reagisco. Ci sono documenti da presentare, uffici da chiamare. Il giorno dopo avevo già risolto la questione. Tutto sotto controllo, perfetta sindrome da segretaria: alta capacità organizzativa e problem solving sono parte integrante del curriculum vitae.
"Per fortuna che ste cose capitano a te che sei forte". E non sai se prenderlo per un complimento o disseminare testate. Come se la forza ti arrivasse così, tipo colombella dello Spirito Santo che si puggia in testa e fa il nido tra i capelli. 
Non so voi ma la forza di reagire me la sfilo dai polsi a forza.
Sono più le volte in cui vorrei ci fossero due braccia a stringermi mentre una voce fuori campo mi dice "tranquilla, ora risolviamo tutto", anziché guardarmi allo specchio e dirmi "tranquilla, risolvi tutto pure 'sta volta".
Ma va da sé che funziona così, ci si adegua e si va avanti. 
Guardo a questi giorni di sole latitante ma carichi di speranze e aspettative. C'è la mia novità in arrivo, conto i giorni che mi sembrano sempre troppi e che so già inizieranno a scorrere con una velocità tale da farmi chiedere se siano esistiti davvero o li abbia sognati.
Sfioro i biglietti dei treni già prenotati, le date fissate, gli orari da rispettare e la sento quella punta d'ansia che torna a bussare: "Giancarlo, ma tu credi sia all'altezza di fare sta cosa?" 
"Be' nel caso ti mettiamo in piedi sullo sgabello" risponde con la calma di un Santo il mio editore.  
"Smettila e non dire cazzate" mi risponde Simona. E lei che è ruvida quanto me, ed è per questo che andiamo tanto d'accordo, mi rassena più dei fiori di Bach. 
Mi ripeto che se così tante persone stanno investendo tempo ed energie evidentemente un buon motivo per farlo l'hanno visto.
Ho quasi la sensazione di vederlo anch'io e di iniziare a crederci davvero.
Che se gestisco al meglio quella che è la ferita più grande che la vita mi abbia inflitto, non vedo perché dovrei fare casini nel momento in cui porto in giro quello che, forse, so fare bene e con più passione. E che ad oggi è la cosa che mi regala più gioia.
Forse ha ragione Paola, si tratta di trovare la giusta corazza e marciare senza paura. 
E io di corazze me ne intendo, magari in armadio ne trovo una che mi stia bene con i tacchi.

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...