venerdì 22 ottobre 2021

#anzianitudine

 

Sto invecchiando. Me ne rendo conto a giorni alterni, e i segnali si sprecano. Intanto mi alzo dalla sedia o dal divano dicendo "ohissa..". Non è un buon segno. Ho tantissima pazienza e sono accomodante su molte cose, alcune delle quali mi facevano infuriare quando ero più giovane, tipo svegliarmi e scoprire di aver finito il caffè, oppure i gatti che ballano la tarantella alle quattro del mattino, la pizza senza il rafforzino di mozzarella... Per contropartita mi trovo a incazzarmi per cose che prima sopportavo perché pensavo di meritarmi. Tipo la gente spocchiosa, quella che pretenderebbe di insegnarmi a vivere o di dirmi cosa sono o non sono, cosa posso o non posso fare. E, credetemi, è vera quella frase che dopo i 40 anni le frasi che iniziano con "devi" non si ascoltano più. Non sopporto chi ha la pretesa di controllarmi, poco o tanto che sia. Chi devo vedere, quando. Cose che nemmeno mia madre non considera più. 

Sto invecchiando. 
Me lo dicono i doloretti crescenti, il sonno precoce e il fatto che non reggo bene la stanchezza di un week end al Salone del Libro. Una giornata è riuscita a sfiancarmi quanto tre, e non ho ancora recuperato. Però, che soddisfazione vedere La mossa del gatto lì, allo stand della Newton Compton. Lì in bella vista, con le persone che si fermavano ad ammirare la copertina, a sfogliarlo... Rispetto a una realtà piccola ho avvertito un cambiamento. Che poi nemmeno so se sia reale o un vaneggiamento dato dall'emicrania di quel giorno. Quando sei parte di una casa editrice piccola hai la sensazione sia fondamentale essere presente, accompagnare il libro, promuoverlo, parlare di lui a chi si sofferma  guardare l'esposizione. 
In una realtà grande come quella di NC la sensazione è che servisse più a me, in quel momento, esserci. Essere lì e rendermi conto che sta succedendo sul serio, che il romanzo che ho scritto nelle domeniche di solitudine ha finalmente un viaggio reale e concreto in corso. Dovevo esserci perché potessi vedere che se la cava benissimo, anche senza di me perché non dipende più da me
Per il resto vedere il Salone affollato è stato disarmante e bellissimo insieme. Una parvenza di normalità, la sensazione che, forse, li avvicina un pochino di normalità. 
E sarebbe ora.

 


domenica 29 agosto 2021

Blog o Non blog...

 

Mah, son qui che rifletto. 
C'è stato un tempo in cui i blog hanno costruito un pezzettino di storia dei social. Un via vai continuo, l'incrociarsi di vite in rete e legami che si tessevano con la stessa velocità di una ragnatela. 
E, talvolta, con la stessa fragilità si interrompevano. 
Oggi la comunicazione è cambiata: qualcosa di più lungo dei 140 caratteri è già visto con una certa diffidenza, persino degli articoli di cronaca si tende a leggere i titoli immaginandone il testo. Con il solo risultato di non comprendere nulla, ma tant'è. 
Ad oggi il blog funziona ancora? Ha un senso tenerlo aperto? Se guardo alla mia attività di autrice, mah. Non saprei. Per gli stessi motivi di cui sopra, i miei post su facebook e su instagram sono relativamente brevi, a parte qualche eccezione. Correlati da immagini che possono attirare l'attenzione,  e se mi riesce con un paio di battute accattivanti. Quando ho scritto post più lunghi qui, rilanciandoli o meglio "condividendoli" nelle altre pagine, il numero di consensi era decisamente superiore agli accessi. Segno che, per quanto apprezzato il tentativo, non veniva letto. Quindi razionalmente dovrei dire di no, non ne vale la pena. 
E magari chiuderlo. 

La questione è che qui ci sono, in qualche modo, nove anni di vita. Raccontati, riassunti, accennati... nella buona e nella cattiva sorte. C'è tanto la mia crescita personale, questo blog ha visto i cambiamenti di stile, di vita, di scrittura e di pensiero, mi ha vista innamorata, abbandonata e rinata. Insomma. C'è troppo di me per lasciarlo andare così, con facilità. Nove anni sono tanti. 
E i "like" non sono tutto nella vita. 
Quindi, caro blog, mi sa che ti tengo. E se diventerà una sorta di monologo on line,  poco male. Chi ha detto non serva pure questo? 

A voi che passate di qui, lascio la porta aperta e qualche bibita nel frigo. Se volete accomodarvi sarà un piacere. 

Buona Vita. 
Sonia 

giovedì 15 luglio 2021

Faccio Musica - Ezio Bosso

 

Ezio Bosso

Faccio Musica – Scritti e pensieri sparsi. 

Piemme 

(A cura di Alessia Cappelletti)


“Per fare musica seriamente c'è bisogno di tempo, tanto tempo; tempo di studio, tempo di prove, tempo di relazioni umane tra il direttore i professori d'orchestra, tempo di riflessioni, sperimentazione, tempo anche per sbagliare e correggere, tempo di riposo”.

Questo il pensiero di Ezio Bosso scritto per: «Il Venerdì di Repubblica». Uno dei capitoli presente nel libro “Faccio Musica” un'antologia di “Scritti e pensieri sparsi” raccolti e, con profonda dedizione, curati da Alessia Cappelletti dall'inizio della loro collaborazione fino all'ultimo giorno. Appunti, registrazioni, stralci d’interviste edite e parzialmente tali. Sfoghi, anche. La curatrice ha fortemente voluto questo progetto, scrive, principalmente per due motivi: preservare e difendere la grande capacità comunicativa di Ezio Bosso, e per permettere a chi vorrà studiarne il percorso artistico, abbia uno strumento serio e utile cui fare riferimento. 

Trovo inevitabile quindi che sia un libro che richiede del tempo per essere letto. Non è uno di quei libri che puoi archiviare in due giorni con la filosofia del “cotto e magnato” di cui Ezio parla spesso. Necessita di tempo, per più ragioni.

La prima, quella della pelle e della pancia: leggere le sue parole equivale a ricominciare una conversazione che sembra non si sia mai spezzata, nonostante l'addio di quel 14 maggio 2020 impossibile da dimenticare. Ogni interruzione di pagina è un “ciao, ci vediamo quando ci vediamo”, e a mano a mano che il libro si assottiglia ci si ritrova a fare i conti con un rinnovato addio. 

La seconda, più razionale, è strettamente correlata alla capacità di divulgatore di Ezio Bosso, seppur amasse poco la definizione. Riflessioni ricche di citazioni, di opere, di persone che hanno forgiato la sua educazione musicale e che hanno creduto nelle sue potenzialità, nomi di colleghi e collaboratori. Artisti di fama che, se non conosciuti, vale la pena di prendersi il tempo per colmare la lacuna. Tra le righe, e nelle sue parole, esce prepotente non solo la sconfinata cultura, ma anche la capacità di raccontare una sinfonia così da renderla comprensibile anche a chi, come me, non è un addetto ai lavori; a chi ha sempre guardato alla musica classica, o meglio libera, con quel timore reverenziale che nasce dall'impossibilità di comprenderne a pieno il significato più recondito. E di questo non si finirà mai di ringraziarlo: riuscire a far sedere nei teatri e nelle piazze un pubblico vasto ed eterogeneo. Come non tornare con la mente al sold-out all’Arena di Verona: quattordicimila persone silenti e concentrate, capaci di percepire e rispettare anche l'ultima nota sospesa.

Un libro che non puoi dire di aver apprezzato se non riponendolo per ascoltare la Quinta diretta da Karajan, solo per capire il motivo che gliela fa definire: “un Olimpo che guardi verso l'alto”.

Ci vuole tempo.

Per comprenderne a fondo le profonde riflessioni, che non possono e non devono essere ridotte a semplici aforismi estrapolati dal contesto, da riprodursi in una cartolina glitterata, o a uno slogan di filosofia spicciola. Questo libro permette al lettore di ripercorrere, attraverso le sue parole, frammenti di una vita così intensa da sembrare infinita. E per un attimo, credo che ci avessimo sperato tutti.

Pagine dolorose.

Fa male oggi, rileggere i capitoli dedicati alla gestione del lockdown, ricordando con quanta energia studiasse una soluzione per permettere ai musicisti di non fermarsi. Per spiegare che la definizione, avvilente, della musica come: attività produttiva non essenziale, equivale a una condanna per tutta la categoria. 

Ciò che abbiamo visto e che continuiamo a vedere dimostra, non senza amarezza, che le sue parole sono rimaste per lo più inascoltate. 

Ma più forte della mestizia per la sua Orchestra ancora senza casa o per le dicerie sul suo conto; più forte della rabbia contro chi voleva - e talvolta tutt'oggi vuole - speculare sul suo dolore fisico. Più forte di tutto il rumore che ambiva a sommergerlo (senza riuscirci) dopo ogni insindacabile successo, in ogni pagina si respira la sua gioia di vivere, il desiderio di non arrendersi e, soprattutto, il suo amore e rispetto sconfinato per la Musica che fin da bambino gli ha indicato quale fosse la sua vita. 

La Musica, l'unica cosa di valga la pena di parlare.

“Mi chiamo Ezio, nella vita faccio la musica. E sono un uomo fortunato. E questa è l'unica cosa che vorrei dover dire per parlare di me”. 

lunedì 19 aprile 2021

Respiro.

 Post senza foto, sono sicura che almeno una la riconoscerete solo per descrizione. 

Dell'ultimo anno ci sono due immagini, che su tutte, mi si sono tatuate tra i pensieri.
Il messaggio scritto la mattina presto del  15 maggio a una persona a cui voglio molto bene: "Ti prego, dimmi che è una fake" e la sua risposta: "No". 

E quella carovana di camion dell'esercito che partiva da Bergamo con chi, contro il Covid, non ce l'aveva fatta. 

In quel momento, quella che era paura è diventata angoscia. Non per me, ma per quel che poteva succedere a MammaSys. L'idea potesse andare in ospedale da sola, l'idea di non poterle essere accanto a sostenerla e, sopra a tutto, il dolore spezzante di perderla e non sapere nulla, non poterla salutare, e il vuoto immediatamente successivo. E lo so com'è, non solo perché è la sorte toccata al padre di una mia cara Amica.

Trent'anni fa ho visto mio padre salire in ambulanza, lo salutavo dalla finestra ma lui non mi vedeva, stordito dal dolore. Se recupero quella foto dalla memoria, il fermo immagine è sul suo voto scavato.
È stata l'ultima volta che ho incrociato i suoi occhi..
E quindi so: so cosa significa vedere l'amore della tua vita andare via, e non tornare più. Non sapere, non avere il tempo di salutare, di dire, di accarezzare un'ultima volta.
So quanto lacerante può essere il distacco, un colpo di velcro strappato dall'anima di cattiveria. È un dolore sordo, come uno stantuffo nelle orecchie che non ti abbandona mai. Puoi lenirlo, metterlo a tacere, soffocarlo mettendoci sopra cenere, ma il fuoco sotto resta.
L'idea di poterlo rivivere con mamma mi ha limitato il respiro per tutto questo tempo. L'ho tediata con le raccomandazioni ogni volta che usciva, e non meno quando eravamo insieme e controllavo ogni cosa toccasse, e avevo lo spray disinfettante sempre in tasca, e lo so che mi avrà odiata, avrà pensato che fossi la mammafiglia più rompicoglioni dell'Universo e sono capitata proprio a lei. 

Ma sabato le ero accanto quando l'hanno vaccinata.
Le tenevo la mano sulla spalla, con i lucciconi scemi agli occhi e la dottoressa che mi guardava con un sorriso indecisa se sorridere a sua volta della mia commozione, o comprendere empatica. 

MammaSys è stata vaccinata.
E io, ve lo dico di cuore, mi sento come mi avessero restituito un anno di vita sospesa, come mi avessero spostato il burrone da sotto i piedi. Parte della stanchezza che mi porto addosso sembra diventata più leggera. 

Ora posso ricominciare a immaginare un domani.

domenica 11 aprile 2021

Due anni fa... La Mossa del gatto

 
Due anni fa debuttava, in libreria, La mossa del gatto. 

Aspettavo arrivasse l'ora di prendere il treno per Torino, aspettavo di poter stringere tra le mani quell'insieme di pagine così dannatamente volute, desiderate, odiate anche, ma alla fine stampate e rilegate a reggere i fili della mia storia. 

Aspettavo di gioire con gli amici di sempre, e scoprire di essere accolta a braccia aperte anche dai nuovi. Ogni libro nasconde storie parallele al romanzo che racconta, La Mossa potrebbe raccontarne almeno altre tre. Ho vissuto giorni strappati a un universo parallelo, ho rincorso treni presi al volo, parole sparse e stretto mani: alcune sono sono rimaste, altre le ho perse. Mi sembra di aver vissuto almeno altre sei vite nel frattempo. E non credo dipenda solo dal fatto che nella mia testa oltre a Syssa, con cui convivo ormai da più di una quarantina d'anni, si sia aggiunta Cloe con il suo carico di paturnie. Con l'uscita del libro ho costruito un mondo che in parte è stato abbattuto da una bufera. E così come ho costruito una seconda storia: Controcanto, ho dovuto mettermi a tavolino e ricominciare da me stessa. E questa volta ho attraversato un terremoto. 
Ora che ci penso, anche per Controcanto si avvicina l'anniversario: guardo a lui con la stessa tenerezza con cui si osserva qualcosa che non ha avuto il tempo di sbocciare. Non ha vissuto nemmeno un cambio di stagione. Eppure di lui mi resta il violino, il pizzicato... la musica di Ezio. 

Mi mancano le presentazioni, l'incontro con le persone, le emozioni dei giorni prima, dei momenti prima quando ti scappa la pipì ogni cinque minuti e non ti decidi a uscire. Mi manca il biglietto del treno, la destinazione, la data segnata sul calendario, le risate con le amiche sul cosa mettersi addosso che poi nelle foto vengo sempre di merda, che ci vuoi fare.
Mi mancano le persone che mi raccontano di essersi ritrovate nelle parole, di aver riso con me anche in giorni in cui ridere era faticoso. Mi piace scoprire che quella scena che ho rivisto mille volte nella testa, in alcuni è arrivata diversa nelle sfumature. 
Mi manca il sentirmi amata, voluta e desiderata da qualcuno che respiri con me. Anche se ora, rispetto a uno o due anni fa, sono meno fragile, meno ingenua, meno accomodante.
Che le ferite fanno crescere, le cicatrici induriscono ma l'esperienza insegna, soprattutto a non accontentarsi più. 

Mi muovo in questa domenica uggiosa con un misto di malinconia che Souvenir de Florance va a lenire. Mi consolo pensando che il viaggio non è finito, sto vivendo un tempo sospeso in cui il terreno seminato va accudito, ma trattiene già la promessa di un nuovo raccolto. E allora vado, perché ho un file da completare e spedire: c'è un domani da costruire...

Perché domani non dovremo ricostruire
Ma costruire e costruendo sognare
Perché rinascere vuole dire costruire
Insieme uno per uno
Adesso però state a casa pensando a domani

E costruire è bellissimo
Il gioco più bello
Cominciamo...

(Ezio Bosso)


On Air: Tchaikowsky Souvenir de florence op 70 / 3.Allegretto moderato-Sestetto Stradivari


domenica 21 marzo 2021

Ma com'è?

 

Foto di David Romano
Ma com'è quando giri l'ultima pagina e sai che sta per venire giù tutto? 

Com'è, eh?
Quando hai trascorso mesi a rincorrere note. E le dita sembravano non avere mai abbastanza fiato, non essere mai così veloci da raggiungerle.
Rabbia e frustrazione strette in a pugno e poi testa bassa e ricominciare. 

Arreso, hai smesso di inseguire e ti sei lasciato condurre da lei, come un amante quando chiude gli occhi e lascia fare. Solo allora quel passaggio estenuante è scivolato tra le dita come una ciocca di capelli e un respiro sommesso. 
Non meno faticoso.
Certo.
Ma il pubblico non lo sa.
La musica trasfigura fatica e dolore, giunge in platea come pura emozione assorbita da vite silenziose e attento, ma per lo più ignare.
La ribalta erige un muro sottile e invisibile, attraverso il quale la musica filtra in tutta la sua potenza. Al contempo trattiene sudore e stanchezza. E cazzo, pure quell'errore minimo e madornale percepito solo da te.
E dal direttore.
Solo un istante, uno scambio di sguardi ed era già scivolato via già oltre schiacciato sotto il peso di quell'ultima pagina che aspetti di voltare in un crescendo di intensità che se solo Dio volesse toglierti un battito di cuore in quel momento nemmeno te ne accorgeresti.
Non prima di vedere la bacchetta cristallizzata nell'ultimo movimento e sospesa, avvolta nel silenzio che è esso stesso musica.

L'applauso.
Annienta e brucia le ore passate a studiare, a ripetere: “Da capo, dovete sentirlo”,  ad incazzarsi pensare di mollare e invece ricominciare, ancora, fino a farsi male.
Che di mollare non se ne parla, che in quegli spartiti c'è tutta la tua vita.  

Com'è? 

La solitudine, i non posso a chi ti chiedeva di uscire e poi ha smesso; gli abbracci negati e il vuoto di una stanza troppo spesso non compresi. 
L'essere cosciente di vivere un tempo dilatato che però non appartiene e quindi, non puoi spendere.
Ma il pubblico pagante non lo sa quanto ti manca, alle volte, il calore di una fronte in quel tratto di pelle tra collo e spalla, quel tocco capace di risanare la più profonda delle ferite e placare quella tormenta che non ti abbandona mai. 

Com'è?

Quando si spengono le luci e ti avvii, solo, verso casa e l'unica cosa che vorresti in quel momento è ricominciare a suonare?


On Air: Prima lettura di Rain Villa Pennisi in Musica.

domenica 7 marzo 2021

Ma cosa vuoi saperne tu?


 "Ma cosa vuoi saperne tu? Che non hai figli, quindi non puoi capire". 
Me lo sono sentita dire così tante volte, negli ultimi vent'anni, da non farci più caso. Anzi, molte volte in determinati discorsi, lo anticipavo io, così da togliermi subito di mezzo il problema. Poi ho smesso proprio di intervenire o dire la mia su determinati argomenti, a ragion veduta soprattutto. Mettiamo ad esempio questo "tempo sospeso": come posso sapere io le razioni dei pargoli, qualsivoglia età si dica, davanti ad una pandemia mondiale. Le abitudini stravolte dalla mancanza di contatto, dall'impossibilità di vedere i nonni, la DAD, e le interrogazioni senza nessuno che suggerisca dal primo banco o dall'ultimo con l'alfabeto dei segni. Il mantenere le distanze, e chissà che pensa il tipo figo della 5°C, è dall'anno scorso che non lo vedo... magari si è messo con quella stronza della 4°A... vai tu a sapere. 

"Cosa ne vuoi sapere tu, che allevi gatti" e qui ci si potrebbe aprire un altro capitolo a parte, e tra gattare e non, una guerra che non finirebbe più. Ad ogni modo sia chiaro che pure i gatti vanno curati, accuditi, capiti e interpretati (vorrei notaste la mancanza della d eufonica: mi sto sforzando), il tutto in una lingua che non è la nostra. Insomma, indipendenti sì, ma solo sulla carta. 

Il punto è, che molti non sanno che c'è un'altra categoria di "mamme". Quelle che fanno da madre ai propri genitori, specie se vedovi. Ad esempio ho una cara amica che lo fa a suo padre, con il pensiero in più di non averlo "vicino di casa", e spesso ci scriviamo messaggi di reciproca comprensione. 

Il genitore "superstite" è una persona sola, che inevitabilmente invecchia. 
Con tutto ciò che ne consegue. 
Mia madre dice spesso alle sua amiche di avere una madre abbastanza rompicoglioni. E si riferisce a me. Con tutto che ci amiamo tantissimo, ma proprio per quello mi rendo conto che, spesso, le dico cose che lei diceva a me quando ero piccola... mi ritrovo a prendermi cura di lei come se fosse, ora, lei la piccola. 
E devo fare i conti con il fatto che la mia roccia, quella che è riuscita a tenere insieme tutti i pezzi quando la famiglia ha subìto il più grande degli schianti, quella che nonostante il menefreghismo di alcuni famigliari è sempre riuscita a mettere insieme un pranzo con la cena, ora sia fragile. Con le sue paure, le sue ansie, e la disperazione che la coglie a ondate come la marea, per la malattia che l'ha colpita, quando magari si pensava potesse stare un po' più tranquilla finalmente. 
E allora ti ritrovi a prendere in mano la situazione: io posso contare anche sull'aiuto di mio fratello grazieazeus, perché il potere del figlio maschio esigerebbe un discorso a sé. 
Ma dicevo, prendi in mano la situazione e provi, nel tuo piccolo, a sgravarla di tutto quanto è il peggio. Vorresti toglierle il dolore e lo smarrimento di dosso, ma non puoi e allora cerchi di tamponare con il cotone la maggior parte degli spigoli che le si parano davanti, cercando di capire le sue esigenze, spesso anteponendole alle proprie, e a far quadrare anche il più ostico dei cerchi. 
Insomma: come una madre metti il suo benessere anche davanti al tuo, e soffri dei suoi stessi dolori, e vigili, accompagni, spieghi. Stringi le mani e consoli. Alle volte rischi e abbracci, perché di abbracci c'è bisogno. E così le giornate sono scandite da "copriti se esci, che stamattina è più fresco di ieri; usa il bastone; hai preso la medicina? devo andare al super, ti serve qualcosa? hai dormito stanotte? no? che succede? Ti vengo a regolare il termostato della caldaia".
O nel controllare con fare indifferente i tempi di risposta ai messaggi, perché se è vero che è diventata bravissima con lo smartphone, è altresì vero che se dovesse per qualche motivo andare in palla, non saprebbe come fare a chiamare e avvertirti... 
E il tutto non lo fai per una creatura che sì, al momento è indifesa ma che stai crescendo perché un giorno sia capace di prendere il volo, con le ali solide che ha costruito con te. 
Lo fai per una persona che ami alla follia, ma che ha vissuto sicuramente più di quanto non gli resti da vivere. 

E quando, da figlia, focalizzi questo pensiero vi garantisco che lo stomaco si attorciglia in doppio carpiato attorno alla spina dorsale, e devi fartela passare perché magari lei non ci vede, ma lo sente quando il tono di voce cambia. Anche se sta assaporando un tramezzino che avete ordinato, prima di entrare dal medico manco fossero spaghetti alla bottarga, e ti dice: "ma sai che questo intramezzo è piacevole, era tanto che non si mangiava fuori". 

Insomma, alla fine questo puntualizzarmi addosso ha ricominciato a darmi un fastidio quasi epidermico. Per cui: se proprio vi venisse spontaneo dirmi che, data l'improduttività del mio utero, non sono in grado di comprendere certe dinamiche, fatevi due conti prima: nei ristori dell'ultimo DPCM  pare che le spese odontoiatriche, non siano contemplate. 

lunedì 22 febbraio 2021

Singletudine al tempo di Covid19

 

Essere single non è drammatico. Non ho mai pensato lo fosse, invece ho spesso ribadito che se una persona decide di entrare nella mia vita, dovrebbe farlo con cognizione di causa: se non ha intenzione di risolvere con me parte dei problemi, almeno non me ne causasse di nuovi. Le ultime esperienze invece sono state una peggio dell'altra. 
E sorvolo volentieri perché certa gente nemmeno merita di essere ricordata. 
Vivere soli non è di fatto così male, puoi dormire di traverso occupando tutto il letto, cenare con quello che vuoi, quando vuoi, indossare improponibili pigiami rosa e puffosi, e guardarti tutti i film lacrimevoli possibili durante le crisi premestruali. 
La pandemia però ha aperto delle crepe anche nell'idillio della solitudine, perché ha stroncato anche tutte quelle attività palliative che aiutano a superare i momenti meno facili: gli incontri con le amiche, lo struscio in centro, il vagabondare per negozi e librerie, una cena con un amico speciale. 
Un'amica, qualche giorno fa, dopo l'ennesimo femminicidio scriveva che è difficile spiegare i pensieri che si fanno all'inizio di una conoscenza, o di una relazione. Perché è inevitabile chiedersi chissà come sarà dopo, come potrebbe reagire nel caso ci trovassimo a dire che non funziona. 
E allora se sommiamo le cose: la paura di incontrare qualcuno che metta a repentaglio la nostra sicurezza, contrapposta al desiderio e all'impossibilità comunque di conoscere qualcuno personalmente, il dover delegare gran parte della comunicazione al virtuale con tutti i limiti del caso, perché tra coprifuoco zone con limitazione di spostamento finisce che se vuoi provare ad allacciare un rapporto con qualcuno per andare sul sicuro dovresti provarci col vicino di casa. 
Inutile dirvi che l'ufficio, posto al mio stesso piano, è sfitto. 
Ad ogni modo, si continua a procrastinare: cene, incontri, viaggi... ci si disabitua al contatto, al piacere di preparare una cena e apparecchiare la tavola, indossare i tacchi pensando di farlo non solo per sé stesse.
Ci si dimentica cosa significa sfiorare la pelle che rabbrividisce, e nel frattempo si impara a soffocare il desiderio perché tanto non ci si può toccare; si guarda con invidia chi si bacia nei film chiedendosi quando, e se, ricapiterà.
Ma soprattutto, ci si augura che sia un po' come andare in bicicletta: dopo i primi secondi di imbarazzo e impaccio, si riesca a trovare una sorta di equilibrio che permetta di gustarsi il sole e il vento sulla faccia... 

giovedì 11 febbraio 2021

Cloe e Pablo approdano in Newton Compton.

 
Cloe e Pablo approdano in Newton Compton. 
E non per gli ottimi tramezzini che Cloe di tanto in tanto prepara, ma perché le loro storie sono piaciute. 
La verità? Io che con i due ci convivo, come prima cosa ho pensato "e mo son ca**i", perché il gioco che era diventato sogno, ora ha acquisito una dimensione di realtà tale da esaltarmi ed inquietarmi nello stesso tempo: quando qualcuno crede in me, la mia prima preoccupazione è quella di non deluderlo. 

Invece Pablo ha preso la cosa con la filosofia che gli appartiene, ha annusato la copia del contratto e ci si  messo a dormire sopra. 
Cloe ha dovuto silenziare la chat con Rebecca: è da ieri che le manda consigli estetici e di outfit, che qui la cosa s'è fatta seria, mica vorrà continuare ad affrontare banditi vestita come una profuga (senza offesa alcuna per i profughi.)
Insomma, il mio tripolarismo sta toccando livelli che nemmeno durante il lockdown. Però è una bellissima sensazione.
Ve lo garantisco. 


domenica 7 febbraio 2021

Mio padre rideva...

 
La mia famiglia è stata toccata da due lutti in nove giorni. 
E se uno, forse, ce lo si poteva immaginare, il secondo ha lasciato spiazzati tutti. 

Increduli e disarmati ci si ritrova a spostarsi tra una stanza e l'altra non sapendo dove toccare. È faticoso mettere le mani nei cassetti che non ti appartengono, nella quotidianità di un frigo che va necessariamente svuotato, un bagno schiuma appena iniziato, un rasoio ancora attaccato alla corrente con la promessa di un altro utilizzo. 

Mi sono state date le foto di famiglia. 
Avevo chiesto in particolare quelle di mio padre, e ora custodisco un patrimonio di storia che non avrà, certo, la S maiuscola, ma è parte della mia storia. Sfoglio pagine di foto ingiallite con volti che non sorridono più da tantissimi anni, molti da ben prima che io stessa nascessi. 
Alcuni ritratti sembrano già scattati nell'ottica di una foto funebre, tale è la posa e la serietà dei visi. Occhi che hanno visto entrambe le guerre, la fame. Se provo ad immaginarli a vivere, mi ritrovo a farlo con la stessa scenografia seppia in cui uno scatto fumoso li ha cristallizzati. 

Invece mio padre rideva. 
Nelle foto di ragazzino e poi di giovane uomo, oltre ad assomigliare vagamente a Franco Battiato, mio padre rideva. 
E faceva le facce. 
Giocava e scherzava con i commilitoni, abbracciava i fratelli, si faceva ritrarre in una posa che scopro appartenermi da sempre, e spesso con una sigaretta tra le dita. Ricordo che, nei miei sogni di bambina, spesso mi vedevo tornare a casa a trovare i miei, ero sposata e nel mio immaginario mio padre mi offriva una sigaretta e poi ci si metteva a parlare. 
Non si è avverato nulla di tutto questo. 
Nemmeno fumo. 

Ma lui rideva. 
E il suo sorriso apre una breccia in quelli che sono i miei ricordi, dove il nastro ha smesso di registrare quando avevo appena 10 anni. Ho poche immagini di lui adulto, perché era lui il fotografo della famiglia, e il suono della voce l'ho persa tanto tempo fa. Fatico a comprendere come possa io essere più vecchia di lui, oggi. 
Giro intorno a mio fratello, e quando ha voglia di raccontare faccio miei i suoi ricordi, provo a tradurli, mi sforzo di confrontarli con il poco che mi è rimasto ed è come riportare alla luce dei reperti di valore inestimabile. Alle volte mio fratello lo fa sovrappensiero: "mio padre diceva..." e io segno, prendo appunti, mi tatuo la frase sottopelle e provo a tenermela stretta. Provo, per quanto possibile, a recuperare frammenti di sonoro e immagini.
Mio padre rideva. 
E se è vero che ho perso tantissimi ricordi, e molti altri invece lo vedono sofferente, sfogliando queste pagine ho acquisito una maggiore consapevolezza di qualcosa che, probabilmente ho sempre saputo: a lui la vita piaceva.
Sempre, comunque e nonostante tutto.
Era nato nel 1946, con tutto quello che poteva significare per il Paese in quel momento. Ma lui nelle foto sorride. 
Gli piaceva ridere, sorridere e giocare. Fare le facce e l'imitazione dell'Orso Yoghi. Anche in una domenica troppo breve, trovava il modo di ridere lasciandoci guardare Asterix invece del telegiornale. Scoprire e riscoprire i suoi sorrisi, credo sia uno dei modi più belli di ricordarlo.
E dire a me stessa, di tanto in tanto, che sì può pure essere una merda alle volte, ma merita di essere vissuta fino in fondo e, potendo o volendo, ridendoci su. 

lunedì 25 gennaio 2021

Domenica in famiglia...

 

Da un po' di tempo, la domenica, leggo per mamma. 
Le mancano i libri, le manca il tempo passato leggendo, e con il videolettore non ha ancora abbastanza pratica.
La settimana scorsa abbiamo finito un libro che aveva iniziato con una sua amica, prima della seconda ondata di lockdown, ieri abbiamo iniziato Controcanto. 
E lo so che ogni scarrafone è bello a mamma soja, ma mi sto divertendo molto. 

A me piace perché mi serve da ripasso: ritrovo le caratteristiche peculiari dei personaggi, quei dettagli che li caratterizzano che si devono necessariamente riportare anche nel prossimo capitolo. Ho beccato pure un paio di refusi (argh!) e qualcosa che, oggi, scriverei meglio.
Lei si diverte perché, avendolo scritto io, cambio le voci a seconda dei personaggi dando loro il tono che avevo pensato mentre scrivevo, le leggo i detti torinesi pronunciati (abbastanza) corretti, e talvolta integro quanto stiamo leggendo con i retroscena vissuti durante la stesura. 
Ad un certo punto, mentre Silvia Cravero sta spiegando ad Alex Priante le caratteristiche del violino, mamma mi ferma poggiandomi una mano sul braccio e mi chiede: "ma quanto hai dovuto documentarti per scrivere tutte queste cose?". 
E quante ne ho sicuramente omesse o quante imprecisioni avrò snocciolato... 
Però la parte di studio e di ricerca che precede, e spesso accompagna l'intera stesura, io l'adoro. 
Quando spunti molto diversi, sembrano combaciare perfettamente pur essendo distanti nel tempo e nello spazio, mi dà la sensazione di essere sulla strada giusta.
E allora la musica riparte.
Al momento non ho date, e non una prospettiva...
Ho solo una certezza: indipendentemente dal "per chi" o "per cosa" scrivere è una figata pazzesca. 

mercoledì 20 gennaio 2021

A volte ritornano...

 

Sys: Tu? Qui...?
Cloe: Ci fai entrare o devo fare pipì sullo zerbino?
Pablo: Mao
Sys: Entrate! ma... come...?
Cloe: Dove.. chi? Maccheneso sei tu la scrittrice... Comunque: A) devo fare la pipì B) Pablo ha fame C) spero tu abbia una connessione che funziona decentemente perché sto in fissa con la DAD. E) queste sono le chiavi della Minnie, sii gentile, il mio trolley è in bagagliaio e mentre schiaffi su un caffè mi racconti che idee hai per il nostro futuro.
Sys: Altro?
Cloe: Sì, starai mica ancora a dieta? ho una fame... Ah, dimenticavo, Rebecca ti saluta.
Pablo: Mao

(Tanta è la voglia di ricominciare a scrivere... tanta. Spero arrivi presto il nuovo pc a casa, così da potermi tuffare tra i sogni e le idee che si fanno largo nella testa). 

lunedì 18 gennaio 2021

Sogno o son desta...

Siamo all'aperto, fa caldo. È estate.
Abbiamo molta gente intorno, lui sta coordinando il lavoro preparatorio per un evento culturale, le persone lo chiamano, gli girano intorno, gli fanno domande.
Lui risponde a tutti, spesso segna qualcosa su una cartellina, appoggia una mano sulla spalla, incoraggia.
Non so esattamente per quale motivo sia lì anch'io.
Non faccio parte dell'organizzazione, però mi piace l'atmosfera che si respira, e la musica di sottofondo che arriva da lontano.
Non sono nemmeno sicura mi abbia vista, non ho il coraggio di avvicinarmi né di salutarlo. Mi appoggio a una colonna portante della struttura, spostandomi per non dare fastidio a chi lavora, ma la mia mano resta lì, sul legno caldo che profuma di resina.
Mi chiedo chi sostenga chi.
E allora la riconosco. La sua di mano, che non ho mai sfiorato ma tante volte guardato, osservato, ammirato.
Immaginato su di me.
Si appoggia sopra la mia, intreccia le mie dita e le stringe.
Questione di attimi prima di tornare alle sue occupazioni, già distante.
È allora che è suonata la sveglia.
Edo è piombato con i suoi sette chili sul mio stomaco e un concerto, questa volta di miagolii, mi ha riportato alla realtà.
Ma io l'ho sentita la sua mano, la percezione del calore, della pelle, dello stringere come a dire "ti ho vista, lo so che ci sei".
Nel sogno non c'erano mascherine, non c'era distanziamento. E in questo periodo dove, soprattutto per chi è solo, la distanza di sicurezza da un altro corpo viene sentita come una voragine insuperabile, quel tocco benché solo onirico è stato quanto di più vero ricordi di aver vissuto nell'ultimo anno.
Pensa te come sto pigliata... 

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...