lunedì 25 novembre 2013

C è un cartello alla porta dice forse domani...

Sono momenti così, che ti prendono a tradimento mentre cammini per il centro, in una sera di quasi inverno. Le mani affondate nelle tasche, stretta in quel freddo pungente che non arriva solo da fuori. 
Hai già camminato di qui, recentemente. nemmeno una settimana fa, altro contesto altra compagnia. con una delle poche persone che sa guardare il tuo scorcio preferito ed apprezzarlo esattamente così com è. e ti eri scontrata non solo con una parte del tuo passato che davi per sepolta, ma anche un dejà vu, capitato così, come capitano solo i dejà vu, a lasciarti incredula e perplessa, prima di far finta di niente e ricominciare a camminare. 
Fa freddo ed è umido. Ti ritrovi immischiata nella malinconia di luci calde e qualche decorazione di Natale che già fa capolino. E lo senti che non hai voglia. Non hai voglia di ritrovarti faccia a faccia con la solita solitudine, con le solite aspettative e la voglia di vivere due settimane di vacanza al meglio, e la quasi certezza di svegliarsi il giorno di Santo Stefano con la voglia di dormire in un unica tirata fino al 6 gennaio.
Hai la voglia fottuta di prendere un treno e di andare. Ancora come sempre. Come se prendere e partire fosse la sola ragione per alzare gli occhi sul calendario ed accennare un sorriso. Tu e i treni. Che ti eri quasi scordata di quanto ti pizzicasse il cuore lo sportello del treno quando si chiude lasciandoti ferma al binario ad osservare mentre si allontana senza la certezza di un quando ancora
Voglia di andare via. Staccarsi dal solito pranzo, dai soliti discorsi. Dalla sensazione del tempo che passa e che sembra essersi cristallizzato sulla solita vita, che ormai ti pesa e ti rendi conto di viverla con insofferenza e poca tolleranza. 
Allora ti stringi ancora di più nelle spalle. Riportandoti addosso un po' di calore che arriva da ricordi evidentemente troppo lontani, stropicciati per tutte le volte che te li sei fatti bastare. 
E canticchi tra te e te una canzone, mentre cerchi le chiavi dell'auto in fondo alla borsa, e chi lo sa, se qualcuno nell'universo è capace di ascoltare... 

giovedì 21 novembre 2013

Marsiglia Blues - Andrea Monticone

È come stare in bilico su una scala a guardare giù.
Aggrappati alla balaustra forse troppo bassa per concederci il lusso di una presa sicura.
Il fascino pericoloso dell’equilibrio precario tra la salvezza e la dannazione, il vuoto o il buio.
Eppure non si può farne a meno.
Di restare così: aggrappati alla vertigine del vuoto che scende, di subirne l’attrazione mentre il buio lì in fondo, sembra risalire e venirci in contro. 

Leggendo Marsiglia Blues la balaustra forse troppo bassa è la copertina.

Iniziare a leggere significa ritrovarsi avvolti e vinti dall'instabilità di una discesa vorticosa verso il basso. Si scendono i gradini accompagnati da Joe, che ci racconta la sua storia. La sua e quella di Bruno Lucien Serrat, cantante e leader di un gruppo rock francese; dell’ Amore Assoluto che unisce Bruno e Marguerite, amore come ossessione, come tormento, dannatamente profondo e fragile nello stesso tempo.
Scendere a tempo di blues.
La musica ci accompagna con un ritmo scandito da evoluzioni e involuzioni: la carriera che decolla e la vita che precipita sotto il peso degli eccessi dell'alcool, della droga e del sesso fin troppo facile.
Eppure. 
Eppure, per quanto il nostro retaggio culturale, educativo o religioso che sia, ci vorrebbe spingere alla condanna dei personaggi senza possibilità di assoluzione alcuna, ciò che più ci spaventa è la capacità istintiva di comprenderli. Quasi giustificarli.
Scendiamo con loro quei gradini nell'impossibilità di abbandonarli alla loro sorte, al loro fuggire, scappare dalle colpe e dal senso di colpa. Impazienti di conoscere non solo la loro storia, ma anche quelle che si intrecciano, arrivano da distante, e sono parte di un unico destino, un unico filo conduttore.
Un unico spartito.

Ci piaccia o no, i personaggi ci annodano a loro. Percepiamo sulla nostra di pelle la luminosità di Marsiglia, il profumo del glicine e della lavanda. Le tinte grigie di una Milano tutt'altro che da bere e il mare burrascoso della Bretagna, con il freddo che ci fa serrare le dita intorno alla balaustra/copertina, e la percezione di un dramma che sta, fatalmente, andando in scena.
Camminiamo per Parigi profumata di pioggia e di spezie, testimone aristocratica e distaccata di dolore, ostinazione e perseveranza mentre Joe cerca di salvare l'amico o forse più inconsapevolmente se stesso.
Siamo in auto con Bruno che, come dice suo figlio " se ne va sempre". Fugge dal suo delitto, dalle responsabilità e dalla sua stessa coscienza che, chiaramente, urla fin troppo per riuscire a sentirla. 

Inevitabile arriva l'ultima pagina ed è un riportare il baricentro più indietro. I piedi tornano saldamenti ancorati a terra, e la vertigine sparisce dopo il primo respiro profondo.
Di nuovo al sicuro, di nuovo distaccati da un mondo che non ci appartiene e che respingiamo con forza.
In qualche modo forse sollevati, come lo si può essere dopo aver allontanato qualcosa che ha la capacità di accendere la luce contro nostre zone d’ombra. 
Ma dopo questo  libro, ascoltare il blues non sarà più la stessa cosa. 




martedì 5 novembre 2013

Pane e Castagne

Era il tempo dei diari segreti, degli aforismi di Jim Morrison scritte con gli evidenziatori e sottolineati con le penne profumate. 
Era il tempo degli Amici di Penna, conosciuti con il classico annuncio su un giornale di fumetti. Era il tempo in cui ti prendevi una cotta per una poesia scritta da un poeta "maledetto" con i capelli ricci troppo lunghi e il carattere troppo introverso. Era il tempo in cui le foto si rovinavano a tenerle tra le mani, che ci scrivevi dietro "ovunque sarai, sarò" che aspettavi il postino come si aspetta il giorno di Natale, che tenevi la lettera con la busta azzurra per ultima, che quella la dovevi leggere piano, per farla durare di più. 

Era il tempo del primo esame all'università: storia dell'arte medioevale. 
La scrivania era il tavolino da campeggio di mio padre, sistemato nella camera piccola. Non sono mai riuscita a studiare nel silenzio. Mai. Il silenzio mi stanca, mi opprime, mi fa sentire troppo forte il rumore dei pensieri. Non posso studiare se ho pensieri che scalciano nella testa. 
Era il tempo di De Gregori nell'aria e Pavese sul comodino. Della canzone "Pane e Castagne" che girava in loop nel lettore cd. 
Delle mattine a lavorare in albergo, a spingere il carrello della biancheria pulita canticchiando nonostante le giornate di nebbia. Le pagine di "Tra Donne Sole" sfogliate in autobus, le pause con lo sguardo che scorreva fuori dal finestrino, a cercare la Mole come se solo a desiderarla potesse spuntare da dietro i palazzi di Corso Garibaldi. 
Era  il tempo in cui ti sembrava di avere tantissimo tempo, eppure non ti bastava mai. Era il tempo in cui fumavo e bevevo caffè americano per non addormentarmi sulla pittura di Giotto. Era il tempo di Venezia e la Basilica Marciana, di racconti scritti come parole non dette. Di lettere che portava ancora il postino, e profumavano di tabacco da pipa. Era il tempo in cui scoppiai in singhiozzi davanti alla Cupola del Guarini in fiamme e restai fredda davanti alla morte della madre di una conoscente. Era il tempo in cui non avevo ancora imparato a difendermi, in cui partivo e arrivavo a Porta Susa e non c avevo pensato granché. 

Era il tempo della crisi. 
Quella che ti cade addosso, e non è vero che non  hai nemmeno il tempo di rendertene conto, la sai la conosci, ne riconosci l odore da distante, ma è meglio non darle retta, non ancora. Fai finta di niente perché la normalità è rassicurante, e alla fine hai fatto una scelta e la devi portare avanti. Con orgoglio e convinzione. Anche quando tutto si sgretola, si spacca, si fonde. Resti lì. Mai abbandonare la nave. Non così facilmente. E chi percorre binari paralleli dall'altra parte della pianura e nella stessa situazione. Stessa ansia. Stesso dolore. Stesso sangue.
Era il tempo delle lettere nascoste nelle camicie stirate. Nell'aggrapparsi alla disperazione altrui per sentire meno la propria. Nel cercare conforto in quel tempo che era stato e si era condiviso e perso. Quel tempo in cui tutto ancora pareva possibile, contro tutto quello che ora sembrava lontano. Era il tempo della prima soap girata a Torino, a spiare le comparse come dovessi ritrovare lì, pezzi di te. Era il tempo della separazione. Del vuoto, dello xanax preso tre volte e poi buttato che fa schifo. Di ritrovarsi ancora. Stessa Torino, stesso profumo di tabacco, un tempo che non era lo stesso. 
 Del ricominciare ma no, non ora non adesso. Del non è tempo e forse non lo è mai stato. Era il tempo di un assenza che tornava. E poi di nuovo il silenzio. Quello che ti fa prendere decisioni forse sbagliate. 
Quello del forse è così che doveva andare, così sta scritto. 

Era il tempo del basta così. Che ne avevo abbastanza.
Quando il tempo si spacca a metà su due fronti, chi raccoglie i cocci, chi fa brillare la fede d'oro. Era il tempo del basta all'arroganza, alla saccenteria, al non avere più niente da dirsi, del no, io non smetto di scrivere solo perché me lo dici tu.
Era il tempo in cui avevo imparato a difendermi, e non partivo più in cerca di qualcuno. Partivo solo per me. 
E continuavo a scrivere, respirare Pavese, cantare De Gregori. Ritrovarmi al Valentino camminando sulle sponde di una città solo mia, ogni volta che cercavo equilibrio, anche se da sola. Torino che ancora mi abbraccia e non mi lascia e fa così parte del mio DNA da trovare la via per tenermi intrecciata a sé come i fili del tram, in Piazza Vittorio. 

Oggi è tempo di. 
Di un messaggio "sarò lì tra qualche giorno, ci sarai?". 
Parole che rimettono tra le mie mani frammenti di 22 anni di storia. 


On Air: Pane e Castagne - Francesco De Gregori.

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...