Ci sono libri che non si fanno scegliere, ma
scelgono. Un po’ come i gatti, forse per quello il binomio funziona da secoli.
Ci sono libri che se ne stanno lì, in vetrina in attesa di essere letti, e
altri che ti fanno l’occhiolino e ti tormentano finché non ti decidi a
prenderli.
Con La riva destra della Dora è stato così. No,
nessun tormento, ma è stato lui a scegliere me. In realtà si potrebbe dire che
un libro ti racconta una storia, ma che, a seconda del momento che vivi, ti
sussurra altro all’orecchio. Come un buon vino che non appaga solo un momentaneo
desiderio, ma ti lascia come retrogusto un bouquet di sapori.
Lo conosco così bene che se mi chiedete un
passaggio posso trovarlo in pochissimo tempo. Eppure, ieri quando lo scorrevo
velocemente per l’ennesima volta, mi diceva cose che non avevo notato prima.
Sono passati due anni da quanto Lola ci
racconta ne Il postino di Superga. Due anni in cui ha raccolto i cocci, tra cui
Rinaldo, e ha ricominciato con il ricostruirsi la vita aprendo il Caveau, un raffinato
negozio di vini e specialità francesi. Sembra andare tutto bene fino a quando
non ne varca la soglia, con il classico atteggiamento da sbirro, Guiscardo un
esponente della Digos “di grado elevato”
che le chiede di collaborare all’indagine sull’assassinio di Aldina Chiappero,
candidata alle elezioni, durante un comizio. Oddio, più che una richiesta di
collaborazione è un ricatto bello e buono, ma Lola non può certo tirarsi
indietro.
È il libro con il maggior numero di angoli
piegati della mia libreria. (E non fate quella faccia è un libro: vive e lotta
insieme a me. Un libro intonso, secondo me, è un libro vissuto a metà).
Ci sono passaggi
sottolineati e altri che ho riletto più di una volta. Ho fotografato la pagina
e l’ho stampata, attaccandola accanto al video del pc. Perché certe cose hai
bisogno di ripeterle più volte, come dovesse essere la somministrazione di una
vitamina che ti rimette in piedi. Bellezza amplificata dal fatto che le quattro
mani, in questo secondo romanzo, si mescolano e si fondono, la “contaminazione”
è tale che diventa più ostico riconoscerle, perché lo scrittore è diventato un
po’ più criminologo, e il criminologo è più narratore di quanto non fosse all’inizio.
Quando La riva destra della Dora è finita tra
le mie mani, avevo bisogno di un libro da cui imparare come si tesse una trama
e l’incrocio dei personaggi, certo. Come per il libro precedente nulla può
essere dato per scontato, a partire dall’arma del delitto: una balestra.
Figuriamoci gli sviluppi dell’indagine, o i personaggi che si incontrano o si,
rincontrano.
Le incantevoli metafore del Maestro (“E ha puntato i suoi occhi, scuri come la
tana di una marmotta, sulle mie labbra” per dirne una), varrebbero da sole
parte del prezzo di copertina.
Ma mi rendo conto che in quel periodo avevo
bisogno proprio di una storia così. Di noir e tensione, ma anche di una storia d’amore che
fosse fuori dai canoni dei benpensanti, che non avesse niente di logico o di
semplice, nemmeno l’epilogo. Avevo bisogno di leggere che certe cose, alle
volte, vanno anche così. Che possano esistere persone così. E poi c’è la Dora,
il ponte delle mie camminate notturne per Torino. La città da cui allontanarmi
mi crea ogni volta una lacerazione. Insomma, è un libro sensoriale. Non so spiegarvi
razionalmente la motivazione, ma questo romanzo è riuscito a spostare i confini
tra lettura ed emozione, reimpostando i parametri delle mie sensazioni.
Mi rendo conto che questa è la “pseudo
recensione” meno recensione che abbia mai scritto, ma forse è proprio l’amarlo
così tanto che mi frena la capacità di parlarne. Perché qui la scrittura è
arrivata così a fondo che se iniziassi a mostrarne di più, probabilmente
tirerebbe fuori anche pezzi di me. E non credo di essere disposta a farlo.
Quando si parla troppo di una cosa preziosa si
rischia di inflazionarne il valore: io smetto di parlarne, ma voi provate a
leggerlo.