martedì 24 novembre 2020

25 novembre

 

Al primo pugno ho pensato: "è ubriaco, e poi è colpa mia, l'ho fatto incazzare... non sono stata comprensiva". La seconda volta una cosa più o meno simile. Del resto aveva tanti pensieri e io? Non lo aiutavo abbastanza.

"Abbastanza" era diventato un termine fondamentale, nel nostro rapporto. Non ero abbastanza magra, abbastanza bella, abbastanza accondiscendente, abbastanza elegante, non avevo abbastanza portamento, non ero mai abbastanza. Ogni donna che si incontrava era un "guarda lei com'è... altro che te, io voglio una donna di rappresentanza". Quando mi chiuse la gola nel frigo (diede un pugno allo sportello mentre io riponevo qualcosa dentro) e un livido mi passò dalla clavicola al mento, iniziai a pianificare la fuga. Ma lavoravo per lui, suoi erano gli amici, i soldi... la casa. Perché è così che funziona, ti toglie tutto.
Ma la famiglia no.
Non c'era riuscito.
E allora ho fatto la sola cosa possibile: ho chiesto aiuto. Perché non si può affrontare tutto da sole, non si può pensare di essere sole. Si deve trovare la forza di chiedere aiuto.
La mia famiglia mi ha portata via di lì. E un pezzo dopo l'altro mi ha aiutata a rimettere insieme i pezzi, e ho ricominciato a vivere. Avevo 27 anni.
Non troppo tempo fa, sono inciampata, ancora, in un narcisista patologico che no, non ha mai alzato le mani. È stato più subdolo, perché in quel caso l'avrei riconosciuto dall'odore.
Ha illuso, mentito, raccontato tante di quelle bugie capaci di costruire un mondo parallelo in cui io, per pochissimo tempo sono stata al centro di un universo da fiaba. Per poi strapparmelo a morsi e mortificare, denigrare, svalorizzare ogni singolo respiro.
E, non ha ferito solo me.
Forte delle cicatrici più vecchie, ho lasciato anche questa volta che mi si aiutasse. Ho detto sì all'amica che mi proponeva l'aiuto di una specialista. Ho detto sì a chi mi si è stretto intorno creandomi uno scudo, un salvagente, una rete di donne, amiche e amici, che non mi hanno mai lasciata sola. Mi ci è voluto poco meno di un anno per rinascere e tornare a respirare senza un'incudine appoggiata sullo sterno.
La violenza non sono solo le mani alzate.
La violenza è anche psicologica, è quella mano invisibile che ti schiaccia al pavimento e ti fa respirare sabbia. Così tanta da spegnerti ogni luce che tu possieda.
Soprattutto, amica mia, quella cosa non è amore.
Non lo è mai stato.
È stata pura illusione che ti è stata donata da un vampiro che, alla fine, aveva bisogno di essere nutrito da quanto di bello hai da offrire, la tua empatia.
E anche se è complicato, anche se l'orgoglio o la paura ci spinge a chiuderci in noi stesse, l'unica cosa che ci salva è chiedere aiuto.
Se vivi una situazione simile, non pensare di essere sola, non pensare che ormai le cose stanno così e non c'è più nulla da fare. Chiedi aiuto.
Lasciati aiutare, permetti a chi ti ama davvero di prendersi cura di te. Non aspettano altro che poterti essere di sostegno.
NON SEI SOLA.

domenica 8 novembre 2020

Riapriamo le danze

 

Ho voglia di tornare qui. 
Sono passati mesi dall'ultima volta. Nel mezzo c'è stata un'intera estate e gran parte un autunno. Entrambe le stagioni hanno portato delle rivoluzioni che mi hanno fatto perdere il contatto con quella parte di me che, per riprendere le fila, ha bisogno di fermarsi a scrivere. 
Ci sono momenti in cui mi sembra di essere dentro una centrifuga, nonostante il tempo abbia rallentato e alcuni giorni non mi riesca di riconoscerli. 
Ho perso il lavoro. 
Il che ha messo, nel giro di pochissimo tempo, in discussione tutte quelle che erano le mie abitudini e consuetudini, le ha rivoluzionate e catapultate non so più dove. Ci sono state mattine in cui non era difficile trovarmi seduta sulla sponda del letto, con lo sguardo fisso in un punto a dirmi "e adesso?". 
Non mi dispiace l'uscita dalla confort zone, ma mi chiedo se, come al solito il destino necessitasse di usare una catapulta per accompagnare il mio cambiamento. 
Ma compatirsi non è mai stata una buona idea, quindi tanto vale rimboccarsi le mani e cercare di rimettere insieme i pezzi, i cocci e agganciare le redini. Se da una parte la cosa mi spaventa, non poco, dall'altra trovo che avere la possibilità di ricominciare e reinventare la propria vita sia dannatamente affascinante. Anche se il periodo è questo, anche se ci sono limitazioni e dobbiamo confrontarci ogni giorno con la tragicità di quello che ci circonda. 
A maggior ragione sento la necessità di ricominciare.
So già come voglio sia la nuova Sonia, e penso che, nonostante tutto, mi divertirò molto a darle voce. 

giovedì 18 giugno 2020

Pensieri a carattere sparso...


Sono giorni che mi aggiro tra queste stanze. Entro, controllo che non abbiano staccato la luce; il frigo è sempre vuoto quindi non contiene forme di vita aliene. Do un'occhiata agli appunti sparsi sul tavolo, ed esco.
Non mi vengono le parole.
In questi giorni poi, pare che chiunque abbia parole per tutto, il che mi fa fare passi indietro, prendere le distanze. Mi ritrovo a ricercare quelle pause di silenzio che sono la vibrazione tra una nota e l'altra, lontano dal chiacchiericcio monotòno e continuativo che odora di fuffa.
Tirare le somme è una cosa che faccio spesso. Non aspetto scadenze, date particolari o svolte del calendario. Mi fermo e traccio quella riga al di sotto della quale, tutto dovrebbe ritornare in un composto ordine. Cosa che non accade  praticamente mai.
L'uscita di un libro segna la chiusura di un passaggio. È una diga che tratterrà tutto quello che avresti voluto dire e non hai detto, fare e non hai fatto. La copertina sigilla la chiusura di un viaggio. Ti mette in pausa, in attesa. È come quando ti decidi a lasciare il sellino della bici, nel primo tentativo senza le rotelle, e guardi la tua bambina andare zizzagando. Cercare un equilibrio che poi sarà solo suo. E tu non puoi fare altro che guardarla andare col fiato sospeso, tagliato dalla voglia di riprenderla e dirle "aspetta che proviamo di nuovo ti tengo ancora un po'" ma non c'è più tempo. È già distante. E anche dovesse cadere, perché si cade e fa parte della vita: si sputa sulle ginocchia sbucciate e si riparte, non farai in tempo a prenderla.
Sono passati 14 mesi dall'uscita de La mossa del gatto. Quattordici mesi che sembrano due vite, quando una non basta. Nel mezzo tante di quelle cose che nemmeno provo ad elencarle. Sono cambiate le emozioni, il punto di vista, le mani che stringo.
La Musica no, quella non è cambiata. Si è arricchita di novità, è stata la mia forza in ogni singolo giorno di questo viaggio e credo che sia entrata a far parte del mio dna. Forse per quello in questo periodo mi rintano nel vibrante silenzio, perché Qualcuno mi ha insegnato che il vuoto non esiste, la fine di una nota è solo l'inizio dell'altra. E quindi, forse, ciò che cerco di mettere a fuoco oltre la riga del conteggio, è la direzione del prossimo viaggio. Ci sono ancora tante note da suonare.
E "in ogni nota c'è una vita intera" (Ezio Bosso)

venerdì 5 giugno 2020

The day after...

Ad ogni modo, entrare in ufficio e trovare ancora i calendari fermi sulla pagina di marzo mi ha fatto lo stesso effetto di una di quelle puntate di "Ai confini della realtà": una serie tv che facevano a metà degli anni '80.
Mi è sembrato di tornare a rompere un tempo rimasto cristalizzato.
Solo la pianta che ho lasciato qui pensando di ricomparire presto, e non dopo tre mesi, dimostra che qualcosa ha continuato il suo corso, mostrando la bellezza di tre nuovi rami.
E poi l'archiviare le mail.
Scorrere le date e rivivere le immagini di quei giorni anomali. La musica alla finestra (Rain, sempre a volume altissimo), la quarantena e l'isolamento (tempismo perfetto per un'infiammazione ai reni), la spesa portata dalle amiche, il continuo sentirsi spaesata.
Vedere mamma raramente e avere paura, sentirsi in colpa.
Non vederla e sentirsi in colpa lo stesso.
Poi arriva maggio e inizi a pensare che ne siamo quasi usciti. Con le ossa rotte ma c'è luce in fondo al tunnel.
Fino al 15 maggio che ti smentisce con un colpo di rasoio. Sapere esattamente dov'eri alle 9.01 (in cucina), cosa stavi per fare (il caffè), com'eri vestita (la solita maglia grigia tre taglie più grandi) e la sensazione del sangue che precipita verso il basso.
Meno di una manciata di secondi di speranza in un messaggio: "ti prego dimmi che è una fake" a cui segue risposta immediata "no".
Tempo che si cristallizza di nuovo, con quel cricchiare di ghiaccio che sembra spezzarsi da un momento all'altro.
Insomma.
Come dire.
Tutto bene un cazzo.

martedì 14 aprile 2020

Ma io boh


All'inizio di questi giorni sospesi ricordai quei mesi chiusi dentro casa dopo l'incidente. Quattro mesi in 27 mq. 
Uscivo "solo estrema necessità" 2 ore, tre volte la settimana per la fisioterapia. E poi comunque nemmeno gli otto mesi successivi furono semplici, non ero sulla sedia a rotelle ma camminavo solo con le stampelle, non si poteva certo definire un carnevale. 

Ricordo perfettamente che non fu affatto facile, però li superai. In questi giorni mi sono chiesta quale fosse il mio stato d'animo. Sicuramente era molto diverso, nel senso che all'interno delle mura domestiche la situazione non era per nulla semplice, ma fuori il clima era assolutamente normale. Ero io a guardare il mondo attraverso i vetri e a sentirmi tagliata fuori, ma lì fuori tutto procedeva con il suo normale ritmo. Non è poco. Oggi chi è chiuso dentro è al sicuro, magari non dai propri demoni, ma è al sicuro. E il mondo là fuori è pericoloso e disarmante. 
Ma a parte questo, certo, il tempo che passa sfuma i ricordi rendendoli più piacevoli o comunque placandone i picchi negativi. Senza contare un dato fondamentale che mi era sfuggito. La codeina! Assumevo dosi costanti di antidolorifico (sotto stretto controllo medico, chiaramente) e forse pure quello aiutava! 
Un mese chiusa dentro casa, di cui 15 giorni in isolamento a causa di una febbricola fastidiosa più che pericolosa. Impossibile spostarsi anche per l'urgenza o per far la spesa. Secca dirlo, ma devi chiedere aiuto. E perché "secca" chiedere aiuto? Era una cosa che mi diceva anche la sciamana anni or sono: "devi imparare a chiedere aiuto quando serve". Forse non è tanto la paura di disturbare il prossimo, che sì, è intrinseca nel mio carattere ma insomma... se non posso, non posso. Non potevo  uscire, non potevo essere io ad assumermi la responsabilità. Mi è toccato delegare.
Ecco qual è il discorso. Ammettere che non puoi essere tu al centro e delegare.
Non hai i super poteri, non puoi fare tutto da sola, non puoi controllare tutto. Credo che sia questa una parte destabilizzante. Non si può controllare nulla, in questi giorni. Si è in balia delle onde. Chiedere aiuto a chi ti sta accanto è l'unico modo per uscirne, ma è quello che ti fa ammettere che da sola vali zero. Che il mondo va avanti senza la tua mania di voler gestire razionalmente tutto. Vivere alla giornata per noi popolo di programmatori compulsivi è drammatico. Eppure. 
Eppure passano i giorni, esci dall'isolamento e puoi finalmente mettere il naso fuori di casa e... portare via la differenziata.
Soprattutto renderti conto della banalità delle banalità: il sole è sorto e tramontato anche senza il tuo smadonnare ai quattro venti. 
Forse è quello che ci spaventa, che ci spinge a restare connessi sui social in cerca un appiglio, a dire e scrivere, a mostrare cosa facciamo, le torte che impastiamo e come passiamo il tempo. È un modo di dire "ehi, sono qui, mi vedi?". È un modo di avere il controllo e di stabilire una parvenza di rassicurante abitudine. Ma l'essere socialmente asociali non è la nostra natura. Abbiamo bisogno di contatto, di mani da stringere, di occhi da incrociare. Abbiamo bisogno di sentire il profumo della pelle di qualcuno che ci scalda l'anima. 
Dal canto mio, benché non sia mai stata una grande dispensatrice di abbracci, se continua così appena usciremo da questo delirio abbraccerò pure il palo della luce. 
Con guanti e mascherina certo. 

mercoledì 25 marzo 2020

Pensieri a carattere sparso...


La cosa positiva è che c'è stato il tempo per rivedere l'impaginazione e fare le cose per benino. 
E poi si è deciso di pubblicare la copertina. Mi si chiedeva insistentemente quando sarebbe uscito e io iniziavo ad avere difficoltà a mordermi le dita. 

Bene, sul quando ancora non si sa, ma per lo meno Controcanto c'è.
Ed è una bella emozione. Strana... Ne senso che è fortemente simile all'emozione provata l'anno scorso. L'incredulità c'è sempre. Trovo ancora difficile focalizzare la forza con cui qualcosa che ho scritto possa entrare nella vita delle persone. 
C'è un po' di consapevolezza, ma poca, di più. Le conferme in qualche modo provano a dirti che sì, aspettano te perché piace quello che sai raccontare tu. Ma in questi giorni l'autostima è più altalenante del solito.
A Controcanto voglio bene. È sicuramente meno autobiografico de La mossa del gatto, per lo meno in superficie. Nello stesso tempo però, ho talmente combattuto per dargli una forma, un senso, per far crescere determinati punti... lo so, è un po' criptico come ragionamento, ma quando potrà essere letto forse diventerà più chiaro. Insomma, ho dovuto combattere per vederlo realizzato. E questo me lo fa amare particolarmente. 
E poi il titolo. 
Io vivo sostanzialmente due drammi: scrivere la sinossi, per cui si dovrebbe avere il dono della sintesi, e il titolo. Questa volta l'ho trovato da sola, l'ho disperatamente voluto e devo ringraziare chi mi ha permesso di tenerlo. Secondo me "suona" come deve suonare. La musica è diventata parte delle fondamenta di questo romanzo. Mi ci sono immersa e ho scoperto un mondo che osservavo solo da distante e con un notevole timore reverenziale. 
Il timore è rimasto, ma continuo ad avvicinarla seppur timidamente, e lei mi ripaga con emozioni uniche.
Per il resto, se l'anno scorso era tutto amplificato, esaltato e per certi versi esplosivo come una bottiglia di champagne, quest'anno è ovattato dall'attesa, dai giorni passati rinchiusa in casa cercando di restare al sicuro rispetto ad un male che, lì fuori, miete vittime. 
Ridimensiona tutte le nostre aspettative, ci costringe a guardare e rivedere la nostra scala di valori e la gestione del tempo, la profondità dei nostri affetti. 
Davanti a questo anche lo slittare della pubblicazione di un libro diventa poca cosa.
Ma, indipendentemente da quando sarà, il fatto che esista è il pensiero positivo a cui mi aggrappo come fosse un salvagente.
Verrà il momento in cui potremmo uscire, tornare a frequentare i nostri posti preferiti, le librerie e i concerti. Torneremo a ridere insieme alle presentazioni e a spettegolare davanti ad un calice di prosecco.
Ecco, penso a questo mentre mi aggiro da sola per casa, sentendo alle volte il peso del silenzio. Ho bisogno di pensare che, non senza fatica certo, ma che un po' alla volta torneremo alla normalità. Sicuramente cambiati, diversi. Spero migliorati anche.
C'è un verso di una canzone di De André che mi torna in mente spesso in questi giorni: Oltre il muro dei vetri si risveglia la vita, che si prende per mano a battaglia finita...
Ecco, in giorni come questi dove il vento si accanisce contro i vetri, aspetto il momento in cui potrò finalmente risentire la stretta di una mano sulla mia. 


lunedì 9 marzo 2020

#restiamoacasa

Tra il 2010 e il 2011 sono rimasta a casa in infortunio 11 mesi.
Un attimo, che alle volte i dettagli sfuggono: A CASA - 11 MESI.
I primi quattro (4 MESI) sono stati i più complicati.
Intanto i primi giorni avevo bisogno di aiuto anche solo per alzare la testa dal cuscino e andare in bagno. Poi benché avessi ripreso forza, e quindi un minimo di autosufficienza, la situazione era comunque complicata: non sono mai stata esile e scapicollare me e le mie ossa grosse nonché la sedia a rotelle giù per una rampa di scale, non era semplice. Quindi: casa.
Uscivo a giorni alterni quando a scapicollarmi era il fratellone, nell'ora d'aria che prendevo per andare a fare fisioterapia.
QUATTRO MESI.
Ho chiuso la porta sul profumo delle caldearroste (era ottobre) ho rivisto il cielo che già c'erano le margherite nei prati. Ho letto I Pilastri della terra, poi ho visto anche tutti i dvd della stessa serie. Ho letto Appunti di un venditore di donne di Giorgio Faletti, che mi è arrivato direttamente a casa con tanto di autografo, e altri libri che ora non ricordo.
Valutavo di iscrivermi, di nuovo, all'università. Ho fatto esercizi di fisio a casa perché l'idea era quella di smentire i pessimisti (e così è stato), ho pianto. Mi sono incazzata e ho maledetto chi mi aveva fatto volare dallo scooter e poi lasciata sull'asfalto senza nemmeno soccorrermi. Ho riso e perdonato, non del tutto ma abbastanza. Ho coccolato la gatta, scritto pagine infinite del blog e conosciuto belle persone. Una di queste è ancora parte dei miei giorni.
Ho iniziato a scrivere due romanzi, non ne ho finito nemmeno uno. Il sabato sera aveva un perché: facevano Ulisse.
Ho imparato a chiedere aiuto e che le punture di eparina sono una rottura di palle. Ma si superano pure quelle.
Quattro mesi. Più altri sette (7 MESI) di semilibertà.
E... sono sopravvissuta.
Ho anche capito che uno dei veri privilegi, nella vita, è la libertà di alzarsi e andare in bagno in modo del tutto autonomo. O potersi fare una doccia senza bisogno di aiuto, riuscire a prepararsi un piatto di pasta.
Sono gesti così scontati, eppure...
Tutto questo per dire che: lo so che non è affatto divertente, che in alcuni momenti ci si sente in gabbia, ma rallentare il ritmo per quindici, venti giorni non è drammatico, significa proteggere noi stessi e le persone più fragili. Significa dare respiro da chi da giorni si fa un mazzo tanto per perdere meno vite possibili, e ogni volta uno di meno lo vive come una sconfitta. È pensare al di là del proprio orticello.

mercoledì 4 marzo 2020

Step by step

A non fare si perde dimestichezza.
Tipo: secoli or sono suonavo il flauto dolce contralto e leggevo correttamente lo spartito. Oggi non ricordo più come si leggano le note, sebbene abbia scoperto di essere ancora in grado di seguirle. Non ricordo le partiture con cui suonavo un pezzo, ma le dita si muovono comunque secondo quei movimenti, in parte persi ma in parte no.
Ma non c'è dimestichezza.
E per fortuna dei vicini nemmeno il flauto.

Non parliamo del correre. Quest'anno sono dieci anni esatti che il termine "correre" è uscito dal mio dizionario personale. Ma dato che sono fortunata anche solo a camminare, faccio spallucce. Anche in giorni come questi, dove cammino sì ma a fatica. Pazienza, andrò più lenta.
 
Quanto torno qui a scrivere, dopo diverso tempo, mi rendo conto di aver perso la confidenza con il blog.
Scrivo, cancello. Poi mi dico "a chi vuoi che freghi". Mah.

Allora apro le finestre, faccio passare un po' d'aria. Tolgo un po' di polvere.
Ho bisogno di passare le dita sui mobili, di riprendere il contatto. Non è sempre così immediato. Ho bisogno di sedermi a raccogliere le idee e riprendere le fila dei pensieri.
È un periodo di ferventi cambiamenti. Lo dice pure Paolo Fox. Anno spettacolare per il Toro. In questo periodo si semina quanto si raccoglierà di strabiliante in autunno.
E per certi versi è proprio così, ci sono diversi progetti in fase di realizzo, non ne posso ancora parlare però si prospetta un periodo carico di novità.
Alcune le ho cercate, fortemente volute, per altre è stato bello farsi trovare e stupire. Se capiterete ancora qui, tra queste stanze, vi renderò partecipi.

Nel frattempo, con il cambio di stagione imminente, non ho ancora affrontato il cambio degli armadi ma valuto con ottimismo il cambio di pelle. 
Che poi non è ancora primavera, ma il sole caldo di qualche giorno fa ha risvegliato non solo i fiori di pesco ma anche i miei sensi di colpa. Per non parlare della bilancia che, destata dal suo torpore invernale, ha sentenziato con brutale freddezza un aumento esponenziale del peso. 
C'è chi sotto stress dimagrisce; ricordo ancora con una certa invidia le amiche più grandi che mi raccontavano "ah, io sotto maturità ho perso 10 kg per l'ansia" e io che aspettavo la maturità pensando che almeno il primo giorno di università sarei stata un figurino. 
E invece no. 
"Ciccia", letteralmente. 
L'altro giorno l'amica che sta divorziando mi diceva : "Ecco, LoStronzo mi ha lasciata e io ho perso 7 kg".
Il bello tra amiche è anche questo: non serve più usare un nome, si dice LoStronzo e si leggono: nome, cognome e codice fiscale dell'innominabile.

Ad ogni modo, da quel che ha detto la bilancia domenica pomeriggio, con me non funziona nemmeno l'essere brutalmente scaricata. 
Che sia l'ansia, il dolore o semplice giramento di palle, io lievito quanto le Tre Marie tutte insieme.
Sempre e comunque.
Però da sabato mi sono messa di buzzo buono. Ho piazzato i miei jeans preferiti, in cui oggi non riuscirei ad entrare nemmeno con l'ausilio della protezione civile, appesi al mobile del salotto davanti al divano. Ogni volta che mi viene voglia di sgranocchiare pure l'imbottitura dei cuscini, li guardo e già mi sento più magra per il solo effetto della buona volontà. 
Ho un obiettivo di almeno 6000 passi al giorno, ieri ampiamente superato, e un frigo dove l'equilibrio degli elementi fa concorrenza alle dispense zen.
Ho dormito così paciosa che in sogno è apparso pure David Garrett. Credo sia un omaggio dell'Universo per la mia temerarietà.

Insomma: cerco di pensare positivo, alle vacanze al mare, a ridurre per quanto possibile la produzione di cortisolo.
Quest'ultima è la parte più difficile, dovrei eliminare completamente le fonti di stress però pare sia illegale e quindi mi armo di considerevole pazienza.
Mi concentro solo esclusivamente sui miei obiettivi, che credetemi sono luminosi e intriganti, sulle novità in arrivo, sui nuovi fiori da mettere sul davanzale delle finestre. Sullo spostare, cambiare, rivedere e anche buttare.
E su quei jeans che con il tacco alto mi stavano da Zeus e che non resteranno lì, in attesa ancora a lungo.

On Air: Viva la vida - David Garrett

martedì 11 febbraio 2020

Ma io boh...

Vì mi scrive e mi chiede come sto. 
Ah bella domanda. Dentro ad un frullatore. 
Ecco come sto. 
Uno di quei periodi in cui ti trovi a guardarti dentro e provi a mettere ordine in quel casino assoluto che è l'armadio della tua vita. 
Il posto dove prendi e appendi i ricordi, ad esempio quelli da cui è impossibile separarti. E sono lì, ben sistemati in una scatola con un bel coperchio, i sacchettini profumati e un posticino privilegiato.

Poi ci sono le situazioni che ti stanno strette. Che però non butti perché non si sa mai: metti che dimagrisco un po' e se le recupero magari riesco pure a respirarci dentro. Mah. Con i jeans non mi è mai successo.

La scarpe scomode... quelle sono un capitolo a parte. Perché se sono scomode ti fanno male, non ci sono santi né madonne. Il piede quello è.
Non puoi accorciarlo, dimagrire, fare finta di nulla. Ci sono cose che o ti calzano a pennello o fanno solo danni.

Ci sono le cose nuove che sono ancora lì stirate e in bella mostra, pronte all'uso e sono cariche di speranze e ottimismo e ancora aspettativa. Chissà se poi le userai mai. Ma intanto sono lì. Le guardi e le accarezzi, è già rassicurante così. È pure divertente fantasticarci sopra, per un po'.

Il difficile arriva quando ti infili in quell'anta dove non guardi da tempo, e dentro ci trovi cose sepolte lì da non ricordi nemmeno quando, e nel momento in cui ci metti il naso sembra che aspettasero solo te, per esploderti in faccia.
E non puoi ficcarle tutte in un sacco nero e fare finta di nulla. Le devi prendere una ad una, controllare di cosa si tratti e decidere che farne. Che può essere l'accantonarlo definitivamente oppure pensare di recuperarlo magari aggiustando qui e tagliando là. 
Qualcosa di utile potrebbe uscirne.

È un bel lavoro, sicuramente.
Quando avrai messo tutto in ordine ti guarderai intorno soddisfatta e compiaciuta. E magari ti renderai conto di aver avanzato ancora tanto spazio, rimasto libero di cui puoi disporre come vuoi. 
Però nel frattempo, è un delirio. 
Una mezza catastrofe. 

venerdì 17 gennaio 2020

Siria e... - Giulia Manzi

Doverosa premessa: questa non è una recensione, non nel senso più tecnico della definizione. Per un motivo molto semplice: non sono un critico letterario. Sono solo una persona che legge, non quanto vorrebbe, a cui piace discorrere di libri, sopratutto quelli che le sono piaciuti. Se leggo libri che non mi conquistano glisso, per due motivi altrettanto semplici: la bellezza sta negli occhi di chi legge. Banale forse, ma tant'è. Non detengo certo la verità universale. Inoltre,  un libro porta con sé una storia sotterranea di energie investite, tempo rubato alla famiglia, agli hobby o al cazzeggio. Quindi merita rispetto, a prescindere. 
Quello che vi apprestate a leggere sono impressioni, sensazioni, che il libro mi suscita. Per le recensioni più tecniche vi rimando agli esperti del ramo.



La primissima opinione che mi sono fatta di Giulia, quando l'ho conosciuta, è stata: "è una macchina da guerra".
Un concentrato di idee, di energia e di cultura. Una persona che ti snocciola citazioni e riferimenti, non perché non abbia idee proprie come fa la maggior parte della gente, ma perché come diceva Enzo Biagi: “perché ho memoria e perché ho bisogno di appoggi: c'è qualcuno al mondo che la pensava, o la pensa, come me”. Insomma, una persona con cui parleresti per ore, non solo per le sue conoscenze in diversi campi della letteratura, ma e forse soprattutto, per la sua dolcezza.
Ed è proprio da questo suo lato delicato che, secondo me, escono le filastrocche di Siria. Un libro per bambini, e per gli adulti che glielo leggeranno. Un libro di quelli che mi ricordano l’infanzia, quando sfogliavo pagine di carta e cercavo i pennarelli per colorare, “mi raccomando, sempre dentro le righe”.
“Siria e…” è un libro di filastrocche che raccontano immagini di vita quotidiana, quella semplice che un po’ rimpiango. O forse rimpiangiamo un po’ tutti.
Ma con sfumature profonde e per nulla banali. Ce lo ricorda Calvino: la leggerezza non è superficialità.

Siria in ogni capitolo impara qualcosa di nuovo ma soprattutto attuale: impara ad amare.
Amare l’ambiente in cui vive e a rispettarlo, impara ad accettare le diversità nell’arcobaleno dei suoi amici come parte del suo mondo, perché sono quelle che l’arricchiscono e la fanno crescere.
Impara che nei racconti della nonna si nasconde la Storia, quella vera. Impara attraverso le carezze della mamma ad amarsi com’è, e senza dare troppa importanza alle voci alle volte avverse che le girano e le potrebbero girare intorno.
Siria impara un insegnamento fondamentale: l’amore e il rispetto per sé stessa e per gli altri.
E allora se per i bimbi è quasi un gioco, tra una rima e un pastello, per noi che gli affianchiamo nel loro approccio alla lettura, potrebbe rivelarsi un più che utile promemoria. 

Non metto link per l’acquisto. Mi permetto di consigliarvi di prenotarlo in libreria. 

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...