lunedì 9 marzo 2020

#restiamoacasa

Tra il 2010 e il 2011 sono rimasta a casa in infortunio 11 mesi.
Un attimo, che alle volte i dettagli sfuggono: A CASA - 11 MESI.
I primi quattro (4 MESI) sono stati i più complicati.
Intanto i primi giorni avevo bisogno di aiuto anche solo per alzare la testa dal cuscino e andare in bagno. Poi benché avessi ripreso forza, e quindi un minimo di autosufficienza, la situazione era comunque complicata: non sono mai stata esile e scapicollare me e le mie ossa grosse nonché la sedia a rotelle giù per una rampa di scale, non era semplice. Quindi: casa.
Uscivo a giorni alterni quando a scapicollarmi era il fratellone, nell'ora d'aria che prendevo per andare a fare fisioterapia.
QUATTRO MESI.
Ho chiuso la porta sul profumo delle caldearroste (era ottobre) ho rivisto il cielo che già c'erano le margherite nei prati. Ho letto I Pilastri della terra, poi ho visto anche tutti i dvd della stessa serie. Ho letto Appunti di un venditore di donne di Giorgio Faletti, che mi è arrivato direttamente a casa con tanto di autografo, e altri libri che ora non ricordo.
Valutavo di iscrivermi, di nuovo, all'università. Ho fatto esercizi di fisio a casa perché l'idea era quella di smentire i pessimisti (e così è stato), ho pianto. Mi sono incazzata e ho maledetto chi mi aveva fatto volare dallo scooter e poi lasciata sull'asfalto senza nemmeno soccorrermi. Ho riso e perdonato, non del tutto ma abbastanza. Ho coccolato la gatta, scritto pagine infinite del blog e conosciuto belle persone. Una di queste è ancora parte dei miei giorni.
Ho iniziato a scrivere due romanzi, non ne ho finito nemmeno uno. Il sabato sera aveva un perché: facevano Ulisse.
Ho imparato a chiedere aiuto e che le punture di eparina sono una rottura di palle. Ma si superano pure quelle.
Quattro mesi. Più altri sette (7 MESI) di semilibertà.
E... sono sopravvissuta.
Ho anche capito che uno dei veri privilegi, nella vita, è la libertà di alzarsi e andare in bagno in modo del tutto autonomo. O potersi fare una doccia senza bisogno di aiuto, riuscire a prepararsi un piatto di pasta.
Sono gesti così scontati, eppure...
Tutto questo per dire che: lo so che non è affatto divertente, che in alcuni momenti ci si sente in gabbia, ma rallentare il ritmo per quindici, venti giorni non è drammatico, significa proteggere noi stessi e le persone più fragili. Significa dare respiro da chi da giorni si fa un mazzo tanto per perdere meno vite possibili, e ogni volta uno di meno lo vive come una sconfitta. È pensare al di là del proprio orticello.

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