domenica 4 settembre 2022

I biker boots (racconto pubblicato da La Repubblica il 16.06.22)

Una delle cose che ho ereditato da papà è la sua scala da imbianchino. Nonostante avesse più di cinquant'anni di onorato servizio permetteva a me, zitella e puffa, di cambiare autonomamente le lampadine, raggiungere la parte più alta dell'armadio e degli stipetti della cucina. 
A quella scala voglio bene, nonostante soffrissi di vertigini e riuscissi a malapena a salire fino all'ultimo piolo. Ha ancora sull'acciaio tutti i segni delle varie tinteggiature di casa nostra, un arcobaleno di ricordi mescolati ai colori. A ben guardare troverei ancora l'azzurro confetto quando nacque mio fratello, e il bianco panna di quando nacqui io, dal momento che condividevamo la stessa camera e il colore neutro evitava inutili battibecchi.
Mi ha accompagnata nei tanti traslochi e in quasi tutte le mie faccende fino a quando il legno della pedana ha iniziato a scricchiolare a ogni salita e no, prima che lo pensiate, non dipendeva dal mio peso. Certo, la usavo con parsimonia benché fossi convinta che non mi sarebbe successo nulla: mio padre, dall'aldilà, non l'avrebbe permesso. 
Invece, qualche mese fa, l'amata scala si è arresa all'inclemenza del tempo e a rischiare lo schianto è stato il tecnico durante la pulizia della caldaia, anima santa. Ma grazie al suo fisico atletico e a me che l'ho afferrato al volo, non si è fatto nulla. (Avreste dovuto vederci: lui appeso alla caldaia, io che lo reggevo per le gambe come si faceva con gli impiccati nel vecchio West. Potrei serenamente definirlo il contatto più intimo avuto con un uomo negli ultimi sei mesi.) A ogni modo, la scala sta bene. 
Si gode il pensionamento e la sua nuova vita, che col cavolo che la butto. Mi sono inventata di trasformare i suoi pioli in porta scarpe. O meglio dovrei dire in porta biker boots che sono gli stivaletti che adoro, uso con più frequenza e sono diventati, negli ultimi dieci anni, la mia copertina di Linus.
Dovete sapere che ho sempre amato i tacchi. Vivevo sui tacchi, correvo incontro alla vita sui tacchi, non ho mai giocato a tennis altrimenti credo avrei fatto pure quello, sui tacchi.
Fino a quando il destino non si palesò sotto forma di un incidente stradale che parcheggiò la mia vita, di lato, per un anno e mezzo: tempo che mi servì per aggiustare ossa e legamenti, oltre che imparare a camminare di nuovo. 
Le cose andarono all'incirca così: dopo aver volato al di sopra dello scooter, ho spalmato la mia tibia sinistra lungo sei metri di asfalto, centimetro più o centimetro meno. Il primario di ortopedia si avvicinò a mio fratello e, abbassando gli occhiali fin quasi alla punta del naso, gli disse una cosa tipo: «Cercherò di semplificare, immagini di avere tra le mani un pacco di farina e lo sbatta con forza a terra. Ecco, la tibia di sua sorella ha subito un trauma molto simile. Se avesse avuto quest'incidente solo cinque anni fa, probabilmente avremmo amputato. Ma sua sorella è fortunata: sua sorella ha me». Mio fratello spostò parte dell'ego ingombrante del chirurgo dalla propria faccia e annuì con l'espressione di chi pensa: “Faccia un po' come le pare, ma la rimetta in piedi”. 
Scoprendo di avere la mia stessa passione per il riciclo, il chirurgo prese una parte dell'osso del mio bacino e lo schiaffò sotto al ginocchio, poi puntellò il tutto con due placche di titanio e un numero non meglio precisato di chiodi. Non sciolse però la prognosi proprio bene: avrei camminato? Sì. Ma sul come non era dato di sapere. O meglio: le espressioni, le alzate di spalle e prolungati e sospirati silenzi non lasciavano presagire prospettive rosee, ma… A volte l'unica salvezza in un momento così difficile è... fare gne-gne. 
Gne-gne al pessimismo cosmico, alle sentenze senza grandi speranze, a chi solo guardandoti pensa di aver capito di che pasta sei fatta ed essere in grado di vedere il tuo futuro riflesso nel flacone della flebo. 
Gne-gne a un destino che vedi avverso e che sembra portarti via se non tutta una buona parte della tua vita, quella delle passeggiate in montagna, delle maratone con le amiche, dei corsi di tango argentino, anche se forse non hai mai voluto iscriverti a un corso di tango ma nel momento in cui ti dicono che non potrai mai più allora, e solo allora, scopri di essere una tanghera mancata.  
Per non parlar dei tacchi. Che ne sarebbe stato delle mie scarpe con il tacco? Dello sculettare con passo audace e seduttivo? Provai, credetemi, a usarle ancora. Il dolore era inaffrontabile. E non era solo una questione di scarpe.
Immaginate il mio sollievo quando, in uno dei tanti momenti di cazzeggio in rete, venni a scoprire che anche Coco Chanel prediligeva la comodità, una delle sue celebri frasi è: “la vera eleganza non può prescindere dalla piena possibilità del libero movimento”. Amava, quindi, le scarpe basse perché si deve incedere sicure verso la vita.
Leggere quelle poche righe cambiò ogni mia prospettiva.
Certo, forse Mademoiselle non pensava a degli stivali da rocker, ma sono dettagli.  
Amo i biker. Sono diventati il mio punto di riferimento. Al contrario di me si sposano facilmente: che sia con i jeans o il classico tubino nero non importa; che li si indossi in inverno o, per chi ama gli azzardi, con la bella stagione, sono comodi sempre.
Mi fanno sentire al sicuro, sorretta e salda sulle mie posizioni. Perché, diciamocelo: la scelta delle scarpe, per una donna, non è una mera questione estetica.
È uno stato mentale.
Se i tacchi alzano l'orizzonte visivo, danno la sensazione di slanciare la gamba e rendono seduttiva, i biker ti donano una stabilità anche emotiva. Ti fanno procedere a grandi falcate verso il futuro, resistere contro la pioggia torrenziale o un destino impervio, sostengono i tuoi passi e pure i calci ben assestati, all'occorrenza.
L'incidente mi ha insegnato a camminare più piano, a rispettare il mio tempo e il mio corpo e a fermarmi quando è il momento, i biker mi hanno permesso di accettare il mio essere imperfetta e a vivere la mia invalidità con stile. Per me sono un simbolo, se non di rinascita, sicuramente di ripartenza; ma soprattutto di presa coscienza della mia forza e della mia ostinazione, quella che mi ha permesso di tornare a camminare quasi come prima, alla faccia delle premonizioni scettiche e disfattiste. Come se un po' del loro carro armato avesse rivestito il cuore impedendogli di spezzarsi, e facendogli trovare la forza di andare avanti. 
Ma se volessi sculettare in modo audace e seduttivo? Quello lo posso fare pure scalza.

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...