venerdì 5 gennaio 2018

“Van Gogh tra il grano e il cielo” - Vicenza

"Impresa ardua riuscire a deludere il pubblico con una mostra su Van Gogh" sospira Patrizia perplessa al telefono mentre, fuori dalla bellissima Basilica Palladiana, cammino in compagnia delle mie amiche, cercando un posto dove mangiare qualcosa al caldo. Del resto non abbiamo ancora smaltito il freddo accumulato in un'ora e mezzo di coda fatta all'ingresso, che nemmeno ci aveva infastidite, del resto si pensava ne varrà la pena.  

La mostra si sviluppa in sale diverse, ognuna per un periodo significativo della vita del Pittore, a partire dall'inizio della sua ispirazione, fino alla morte. L'onere di spiegare cosa stai per vedere è dei due pannelli distinti, presenti in ogni sala, uno accanto all'altro, uno con una lettera di Vincent al fratello Theo, e una spiegazione estratta direttamente dal libro (non catalogo, libro mi raccomando, che ci tiene) scritto dal curatore della mostra stesso, Marco Goldin. 
Entrambi i testi, non certo sintetici, sono posti all'ingresso della sala, proprio accanto alla porta. Quindi tutte le 1003 persone entrate: chi con l'audio guida, chi con la guida turistica, chi con niente di tutto ciò, si trovano ammassati nello stesso punto, cercando di leggere questo muro di parole illuminato da un faro posto, nemmeno troppo alto, sopra le nostre teste. Con il risultato che se davanti al fascio luminoso ci capito io con il mio essere diversamente alta, ci sono buone speranze di riuscire a completare la lettura. Se alle spalle avete un uomo di un metro e ottanta, affari vostri. In ogni caso, leggere tutto è quasi impossibile, perché dopo pochi minuti verrete presi a gomitate alla milza al fine di spostarvi.
Centoventinove opere, per lo più disegni, dai primi studi, fino ai dipinti, posti quasi tutti nella penultima sala. Dove, grazie ai nuovi ingressi, le persone ammassate sono ormai il doppio. E per un attimo mi sono anche chiesta in caso di emergenza dove fossero le vie di fuga, non visibili, né per il buio né per l'eccessiva calca presente. 
Riesco a farmi largo per ammirare Pioggia a Auvers. Ed è un'emozione unica, quasi commuovente. Peccato per la sciura che mi affianca e, armata di block notes e penna, si piazza con il naso a 5 cm dalla tela per vederla meglio, signora mia.
Mi chiedo: ha senso depositare le borse nel guardaroba quando chicchessia può avvicinarsi a un quadro quasi toccandolo, senza che nessun sistema di allarme suoni? e se questa tizia avesse voluto lasciare un segno indelebile del suo passaggio? Certo, scappare sarebbe stato impossibile, ma ormai il danno sarebbe stato inestimabile.
Inoltre: perché invece del quadro devo passare il quarto d'ora successivo ad ammirare mech e forfora della sciura, sperando che decida quanto prima di levarsi dalle palle? Nessun paletto o nastro allontanatore, del tutto menefreghisti i ragazzi dello staff che, presumo, dovrebbero controllare qualcosa di diverso dalla punta delle loro scarpe.
A metà percorso una chicca che non ti aspetti: un plastico enorme della clinica di Saint-Paul-de-Mausole. Ci siamo guardate intorno aspettandoci di veder sbucare Bruno Vespa con un pennello di Vincent nella mano destra e l'orecchio mozzato nella sinistra e i collegamento aperto con la Protezione Civile.
Quale fosse l'utilità di questa cosa, ancora non ci è dato di sapere.

Siamo alla fine. Di tornare indietro e gustarsi nuovamente qualcosa che magari non si è apprezzato è fuori discussione dato che i visitatori sono in continuo aumento.  Manca l'aria, e qualcuno fa sentire il proprio disappunto ad alta voce. Cerco di raggiungere l'ultima sala sperando di trovare il "Campo di grano con volo di corvi", che però non c'è, in compenso l'ultima sala è tutta dedicata all'autocelebrazione dell'onnipresente curatore Goldin che oltre dei pannelli, del libro pseudocatalogo, dell'audioguida e forse pure del plastico (?) è autore del monologo teatrale che ha ispirato i dipinti di Matteo Massagrande, che chiudono la mostra che, arrivata a questo punto mi sembra incompleta. Manca l'ultima tela, quella dipinta prima di uccidersi. Quella in cui, Vincent disegna quello che è sa essere il proprio destino. 

Sveglio delicatamente una delle ragazze dello staff e le chiedo: "scusi, ma il Campo di grano con i corvi, non c'è?" lei mi guarda come se le avessi chiesto la quarta regola di Newton e con sguardo bovino (cit.) di rimando: "Ehnnnn?"
Io: "Campo giallo, cielo blu, corvi neri, ha presente?"
Lei "ah... no... non credo... ma ne abbiamo altri...". (A stento non chiede: "che taglia le serve?")
La saluto e la mando a cercare pokemon.
Comprendo che il Van Gogh Museum di Amsterdam possa non averlo prestato per l'occasione, ma anche una semplice proiezione avrebbe dato la chiusa corretta a questo percorso. 
Ne ho abbastanza ed esco. Ricordo con nostalgia a una vecchia videocassetta acquistata ai tempi dell'università: dentro la pittura di Van Gogh, curata direttamente da Vittorio Sgarbi, alcuni passaggi di una critica assolutamente sublime, sono ancora ben impressi nella memoria.

Insomma, un'ottima occasione mancata. Perché le tele andrebbero protette con cura, perché se non hai a disposizione uno spazio ampio quanto il Louvre, non puoi far entrare un numero sconsiderato di persone contemporaneamente, perché si creano calche simili ai caselli autostradali il giorno di ferragosto. E poi devi dare una direzione logica in cui muoversi, e dei tempi precisi in cui soffermarsi e poi scorrere. Perché non si può curare una mostra mettendo il proprio ego davanti alla genialità indiscussa di un Pittore che emoziona solo evocandolo.

Fortunatamente di Vincent Van Gogh non si finirà mai di parlare, di questa mostra e del suo curatore, spero, ci si dimenticherà in fretta. 

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