venerdì 24 marzo 2017

Fragilità


Sono due giorni, che tutto ci ricorda quanto siamo fragili. Quanto siamo precari. Quanto tempo sprechiamo in pensieri e, spesso, ansie del tutto inutili.
Quando sono uscita dal tunnel "incidente" avevo ben coscienza di quanto tutto fosse così... dannatamente sfuggente. E forse, riuscivo a cogliere l'attimo prima e meglio. Perché la botta (non solo figurativa) era recente, e cocente. Perché quando riapri gli occhi e focalizzi di essere ancora viva, ti imponi di darti una seconda possibilità. Poi, man mano che i giorni passano, ci si abitua. Anche alla fragilità, alla precarietà. Rientri naturalmente nel circolo vizioso delle cose da fare, alle scadenze, ai problemi del quotidiano, a come far quadrare i conti tra bollette e imprevisti.
E poi ci sono le notizie che, improvvise, ti riportano in una realtà in cui un folle fanatico può decidere di alzarsi la mattina, e di falciare la tua vita in nome di un dio (e lo scrivo volutamente minuscolo) che non è di nessuno, se non dei folli fanatici. Oppure, un po' più in piccolo, ma certo non meno doloroso, uno dei meravigliosi ingranaggi del tuo corpo decide che è tempo di fermarsi. E con lui il tuo respiro.
E' un paradosso, da un lato, una cosa totalmente scontata al punto di sembrare quasi banale, dall'altro. Ma alla fine, in quei momenti, tutto ciò che ti resta tra le mani sono i sentimenti. Non c è più nulla che ti tocchi, nulla che ti importi davvero. Non lo screzio, non l'incomprensione. Resta solo l'amore, le parole non dette. Quelle che spesso custodiamo, le pensiamo, ma soprattutto le sentiamo ma che non diciamo. Perché il pudore, perché crediamo ci sia sempre tempo, perché... mille e un motivi (fasulli) per tacere.
Qualche giorno fa attendevo un'amica per una cena, e poi si sarebbe fermata a dormire da me. Subito mi è partito il trip delle pulizie, del mettere in ordine, perché tutto doveva essere al meglio. Poi, complice un raffreddore più forte del solito ho dovuto desistere, ma questo rallentare forzato mi ha fatto capire, che a quell'amica sarebbe rimasta impressa la serata condivisa, il potersi riabbracciare finalmente, e sì, forse anche la casa, ma non come specchio esemplare di pulizia, piuttosto come riflesso del mio essere. Non per i pavimenti lucidi, ma per le foto che ritraggono momenti speciali alle pareti.
Mi capita sovente, guardandomi intorno e dentro me stessa, di pensare che alla fine ciò che ci fa più paura è proprio vivere appieno. Attraversiamo i giorni con il freno a mano tirato. Siamo prigionieri di una gabbia di cui noi stessi abbiamo forgiato le sbarre.
Ed è strano che sia proprio la morte, a doverci ancora una volta insegnarci a vivere. Siamo fatti davvero strani...

Nessun commento:

Posta un commento

In un mare senza blu - Francesco Paolo Oreste

  Già lo scrissi, una volta, che Francesco Paolo Oreste scrive con lo stesso gioco di luci e di ombre con cui Caravaggio dipingeva le sue te...